In una seria direzione
mercoledì 4 maggio 2022

Ha esaltato il molto che già c’è, ma è stato puntuale nell’elencare il tanto che ancora manca all’Europa unita, il presidente del Consiglio Mario Draghi nell’intervento di ieri al Parlamento di Strasburgo. Per anni è circolata una celebre battuta attribuita a Henry Kissinger, segretario di Stato Usa con i presidenti Nixon e Ford: «Non so quale numero di telefono devo fare per parlare con l’Europa». In effetti, nell’epoca degli smartphone e della posta elettronica, molte cose sono cambiate e non soltanto perché il progresso tecnologico ha reso più agevoli le comunicazioni. Tra crisi drammatiche e traguardi faticosamente raggiunti, l’Unione Europea – che all’epoca di Kissinger si chiamava Cee ed era un’altra cosa – è cresciuta. E proprio nei più recenti e bui frangenti della sua storia – la pandemia di Covid-19 e, ora, la guerra portata dalla Russia in Ucraina – ha dimostrato di saper anche marciare unita e di saper trovare (quasi) una sola voce.

Nei precedenti rovesci, che furono economico-finanziari e perciò stesso sociali, ovvero l’ondata dei mutui subprime arrivata dagli Usa nel 2008 e la crisi del debito sovrano tra il 2010 e il 2011, aveva invece rischiato di naufragare. Naufragio scongiurato, nel secondo caso, dalla Bce guidata proprio da Draghi. Si può anche dire, perciò, che l’Europa sta cominciando a imparare dagli errori del passato.

Non c’è ancora a Bruxelles, e probabilmente non ci sarà mai, una sola scrivania con un unico numero di telefono, ma oggi per lo più si sa che cosa è la Ue e che cosa pensa.

Il premier italiano ha ricordato i progressi fatti, tuttavia ha voluto soprattutto spingere lo sguardo oltre, ben consapevole dell’estrema criticità del momento storico e della necessità non più rinviabile, per l’Unione, di fare il passo decisivo: essere non soltanto un interlocutore affidabile per il resto del mondo, non soltanto 'fortezza' del diritto, della pace, della solidarietà e di un’economia che coniughi la libertà di mercato con l’attenzione per il sociale, ma diventare anche un soggetto in grado di incidere nei processi e sugli assetti del pianeta. Un passo da fare «con la massima celerità», ha sottolineato Draghi, in quanto «il buon governo non è limitarsi a rispondere alle crisi del momento.

È muoversi subito per anticipare quelle che verranno». Ha auspicato perciò un federalismo europeo che sia «pragmatico» e «ideale» allo stesso tempo, che sappia cioè affrontare i problemi con realismo ma senza perdere per la strada i valori fondanti. A partire proprio dalla vocazione alla pace di un’Unione che nacque per cacciare la guerra fuori dal suo orizzonte.

Le sfide sono diverse, ardue eppure ineludibili. Ma la principale sembra quella di darsi dei 'veri' confini, confini che siano sentiti finalmente come propri da tutti gli Stati membri.

Confini da tenere in sicurezza, certo, e confini da condividere per accogliere in maniera equa chi arriva da fuori in cerca di pace, di libertà, di diritti. È un discorso che vale per la difesa comune europea, che come ha spiegato il capo del governo, servirebbe a «razionalizzare e ottimizzare i nostri investimenti in spesa militare », visto che oggi spendiamo il triplo della Russia ma poi lo disperdiamo in 146 sistemi di difesa differenti. La difesa europea, dunque, è il contrario della corsa al riarmo su base nazionale che minaccia di impegnare molti in questo periodo, vociante e pericoloso, di slanci bellicisti.

Questione di confini condivisi, ancora, è l’esigenza di una «politica estera unitaria», di «una gestione davvero europea» non solo dei profughi ucraini, ma «anche dei migranti che arrivano da altri contesti di guerra e di sfruttamento», con il superamento della logica del Trattato di Dublino. Ed è questione di confini condivisi, ovviamente, l’allargamento dell’Ue a nuovi Paesi, Balcani e Ucraina inclusi. Così come lo è, a ben vedere, anche la meta più ambiziosa indicata da Draghi: il superamento del principio dell’unanimità nelle decisioni, «da cui origina una logica intergovernativa fatta di veti incrociati».

Una riforma che non soltanto permetterebbe di fare, a maggioranza qualificata, scelte rapide e dai contorni ben definiti, ma anche di affermare un nuovo modello di Unione, non più a trazione franco-tedesca ma secondo un assetto variabile dentro un quadro unitario. Una direzione e un cambio di marcia che molti, ma non tutti hanno applaudito a Strasburgo. E la certificazione di un ritrovato impegno propulsivo dell’Italia nel concerto europeo, che sarà saggio mantenere e rendere concreto.

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