Doveva essere un ragazzo coraggioso. Uno di quelli che, tra le macerie della Siria o in un campo profughi, si dicono: io in Europa arriverò, vivo o morto. Di quelli, forse, che lo hanno promesso alla madre: arriverò in Occidente, troverò lavoro, e un giorno voi mi raggiungerete. In Europa quel ragazzo è arrivato, ma morto peggio di un cane, soffocato dal caldo in un container e incastrato nel suo rifugio, da cui inutilmente ha tentato di uscire. Agnadello, nel Cremonese, nel polo logistico dove approdano Tir carichi di merce da ogni dove.
È la mattina del 24 agosto. Un autista che ha caricato quel container in un porto del Sud spalanca il portellone e trova il corpo di un uomo inerte, come contorto fra le lamiere. L’ambulanza è inutile, l’uomo è morto da diverse ore. Ma, all’esame radiografico, le ossa risultano quelle di un ragazzo. Le etichette dei jeans sono scritte in arabo siriano. È tutto quello che per ora si sa del clandestino trovato ad Agnadello: arrivato in Europa, sì, ma morto, e di una morte terribile. La storia è sulle principali agenzie di stampa, sui giornali locali, su non molti quotidiani, in un colonnino: di migranti morti nei Tir se n’è visti tanti, non è una notizia.
Ma sforziamoci con un esercizio di immaginazione. Quel ragazzo, non ancora diciott’anni. Nel 'nostro' mondo, poco più che un bambino. Gli occhi scuri, i capelli neri. Se veniva dalla Siria, un’atroce guerra negli occhi. Se fuggiva dai campi in cui la Turchia costringe i profughi, la miseria come unico orizzonte, per sé e per i suoi fratelli.
A quell’età però, se si è già visto tutto, nella testa si è uomini. Se si è forti fisicamente e audaci, si crede di poter vincere ogni prova. Sono questi che partono, selezionati dalla disperazione e dal coraggio. Acqua, un cellulare, un fascio di banconote, del cibo in scatola: uno zaino da niente, per un lunghissimo viaggio. Gli abbracci, l’addio. In camion, chissà come nascosto, fino a Istanbul.
Quale babele il porto, nell’incrocio di cento lingue, nel fragore delle gru che caricano. Chi propone al ragazzo quel passaggio di certo sa che maledetto caldo arroventi le lamiere sui mercantili nel Mediterraneo, ad agosto. Il ragazzo non lo sa, oppure crede di farcela comunque. Il mazzo di banconote passa da una mano all’altra, il clandestino entra nel rifugio, e magari al primo momento gli pare anche accogliente.
Magari telefona a casa: ce l’ho fatta, arriverò in Italia. Dal suo buco nel buio avverte che la nave si muove, esulta. L’aria è già bollente. Il ragazzo si rannicchia su sé stesso e cerca di dormire. Si risveglia, beve avidamente, dorme di nuovo. Si rialza e batte, disperato, da dentro la sua prigione, ma nessuno lo sente.
E neppure l’autista che carica il container sul Tir sente niente. Dorme, o è già moribondo il 'clandestino'? Quanto regge un adolescente forte, in una cella d’acciaio rovente di sole? Che la coscienza gli sia venuta a mancare, viene da pregare – e tuttavia, ancora ne aveva abbastanza per cercare di uscire da quella tana. Che non abbia capito, nell’agonia, come tutto stava finendo: il viaggio, la speranza, la sua breve vita. Nemmeno diciott’anni secondo le lastre, batte l’agenzia Agi.
Diventa una 'breve' in cronaca. Questo siamo diventati. Nel crollo demografico, mentre la manodopera per i lavori più duri manca, i siriani e afghani e curdi più determinati a vivere muoiono così. Proprio certi, che non ne abbiamo bisogno? (E ne vengono su tanti da noi, di ragazzi così?) Ma, temiamo, di queste storie si leggerà sempre di meno. Vecchio e impaurito, il Primo Mondo non vuole vedere i suoi borghi abbandonati, i figli che mancano. E anche noi, non ci stiamo indurendo? Quel ragazzo, i suoi occhi, sua madre, le promesse, e poi il buio, la paura, l’aria che brucia in gola. Sappiamo fermarci un istante e almeno immedesimarci nell’ignoto senza visto e senza più patria né bandiera?
Se c’è ancora questa fessura in noi, c’è ancora forse speranza. Se qualcuno, leggendo, si ferma a dire una preghiera. Per quel ragazzo e per tutti quelli che vorrebbero solo lavorare onestamente e vivere qui: lo vorrebbero disperatamente – al punto di sfidare una simile morte. Quando ci decideremo a dare loro strade e rotte di migrazione che non s’inabissino nel dolore e sino alla morte?