C’è un tempo per ogni cosa, sostiene il Qohelet. E questo, certo, è tempo di interrogarsi a fondo sui diversi significati di una pandemia che sta smascherando le nostre fragilità. Ma per le nostre diocesi – al pari delle altre della cattolicità sparse nel mondo – è altresì tempo di mettersi in cammino, anzi: di avviarsi per un cammino sinodale, come l’hanno definito i vescovi (scelta che non è una diminutio rispetto a sinodo, rinviando a uno stile, una metodologia, un atteggiamento ecclesiale, ben più di quello che, nel caso peggiore, potrebbe risultare anche solo un mero adempimento burocratico). Il titolo è programmatico: «Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione». Un impegno, va detto, da far tremare i polsi, pur limitandosi al piano organizzativo: ma anche, e soprattutto, un’occasione preziosa, da cogliere al volo e sfruttare appieno, che avrà bisogno da parte di tutti noi di pazienza, capacità di ascolto e umiltà. Imparare ad agire sinodalmente, da parte di laici, presbìteri e vescovi, docili all’azione dello Spirito, non sarà facile. Anche per la nostra disabitudine a camminare insieme.
La posta in gioco, in effetti, è davvero alta. Anche perché, per ragioni anagrafiche, dell’evento potrà sentirsi partecipe per l’ultima volta di un’esperienza ecclesiale importante una generazione ancora in grado di riferirsi al Concilio Vaticano II con cognizione di causa, avendo udito i racconti dai diretti protagonisti e respirato l’atmosfera unica di quell’assise di quasi sei decenni fa. Una generazione che può ancora scaldarsi il cuore su temi (dalle riforme ecclesiali al sacerdozio comune) che alla stragrande maggioranza dei nostri giovani probabilmente appaiono sospesi fra l’astruso e l’insensato: eppure, ovvio, il coinvolgimento di questi ultimi nel processo sinodale resta vitale. Nessuno si senta escluso!
Credo che la domanda sottesa a tale percorso, sull’identità della Chiesa e su cosa significhi essere Chiesa oggi, vada declinata in un’unica modalità sensata: non rassegnandosi a contemplare il proprio ombelico né cimentandosi in analisi autoconsolatorie o lamentazioni laceranti, ma misurandola sulla sua disponibilità a relazionarsi con il mondo esterno, con quell’alterità che ormai ci abita e ci mette in crisi e spesso ci inquieta; con la vasta porzione di Paese che non soltanto ha smarrito il senso di Dio, ma non sente per nulla la spinta a un’appartenenza ecclesiale e neppure ha la percezione di cosa voglia dire un’appartenenza simile (penso all’analisi di un teologo di vaglia, il gesuita Theobald, che parla apertamente di esculturazione del cristianesimo dalla cultura europea).
Per orientarci disponiamo, dal 2013, di una bussola non ancora sperimentata a fondo, l’Evangelii gaudium, che papa Francesco ci ha donato come mappa di una Chiesa capace di uscita. Mappa tutta da decifrare, perché, come rileva il vescovo Erio Castellucci, «non sono concetti: sono volti, esperienze, urgenze che riguardano tutte la necessità di ripensare l’annuncio di Cristo, in un contesto nel quale si sono riscoperte alcune grandi domande esistenziali». Volti ammaccati, confusi, e mascherati. Sì, c’è tanto da riflettere, in vista del sinodo che si è appena aperto. Come si legge nella Mishnà, trattato Pirkè Avot: «La giornata è corta e il lavoro è tanto; gli operai sono pigri, il compenso è abbondante e il padrone di casa incalza. Ma non è tuo il compito di completare l’opera, né sei libero di esentartene ». Se c’è un tempo per ogni cosa, è proprio questo il tempo per non esentarsi dal tentare l’opera e dal sentirsene partecipi.