Un anno fa non sapevamo, non immaginavamo, non credevamo. Un anno fa non speravamo. Non sapevamo che il virus era già tra di noi, molto prima di quando riuscissimo ad accorgercene. Non sapevamo che esistesse, non sapevamo che cosa fosse, non sapevamo che la malattia non colpiva solamente gli altri. Non lo sapevamo perché non immaginavamo che potesse accadere: non ora, non qui, di certo non a noi. Il fiato che manca, la morte solitaria, le città deserte. E la distanza, le mascherine, il ripensamento ogni volta che devi uscire di casa o incontrare qualcuno. Le scuole chiuse, gli uffici spopolati, la serrata dei negozi mentre gli ospedali si riempiono, i posti in terapia intensiva scarseggiano, la stanchezza di medici e infermieri rischia di prendere il sopravvento. Non immaginavamo la spesa portata sul pianerottolo, né le code fuori dai supermercati. Il timore per la salute, la preoccupazione per il lavoro. Non credevamo di esserne capaci, eppure ce l’abbiamo fatta, in un modo o nell’altro.
Eccoci qui, un anno dopo, più tristi senz’altro, qualcuno perfino più saggio, come insegna una vecchia poesia. Non credevamo di essere tanto forti, né tanto pazienti. Addirittura disciplinati, perché anche questo siamo stati. Anche questo, nonostante tutto, continuiamo a essere, sfidando il luogo comune dell’incuria dilagante e il pregiudizio temibile che ciascuno nutre verso sé stesso, quella piccola voce maligna che ripete: non sei adatto, non sopporterai quest’altra privazione.
C'è chi ha imparato a lavorare dalla sua stanza e chi ha dormito su una branda, chi si è isolato da tutti e chi non si è potuto assentare mai. Ognuno ha avuto le sue fatiche, ognuno ha benedetto la tecnologia che risolveva qualche problema e l’ha ma-ledetta, perché altri problemi li causava. Non immaginavamo di saper resistere così a lungo, non pensavamo di riuscire a modificare in maniera così radicale il nostro rapporto con lo spazio e con il tempo.
Anche a pregare abbiamo imparato da capo. Anche con l’invisibile presenza di Dio ci siamo misurati in modi e forme imprevedibili. Come sia avvenuto non lo sappiamo neppure adesso, a un anno di distanza dall’inimmaginabile e dall’incredibile. Se torniamo indietro di dodici mesi, ci sorprendiamo di quanto fossimo sicuri di noi stessi, di quanto poco facessimo affidamento sugli altri. Era un mondo più semplice, letteralmente a portata di mano. Un mondo in cui ci potevamo illudere di non aver bisogno di nulla, anche perché così, illudendoci, ci convincevamo che nessun altro avesse bisogno. Avevamo la coscienza in pace, o almeno così ci ripetevamo. Non ricordavamo che un altro poeta aveva già parlato di noi, che affrontavamo le nostre giornate vivendo e quasi vivendo. Niente sarebbe cambiato, non c’era più nulla in cui sperare. Sì, un anno fa non speravamo più, ci eravamo emancipati da questa virtù ingombrante, che solo nella furia della tempesta fa sentire la sua voce sottile. Adesso, invece, siamo tornati a sperare: che un vaccino ci restituisca sicurezza o che i nostri cari non abbiano sofferto invano. Che il futuro smetta di tradirci, che non venga meno la solidarietà. Abbiamo pagato un prezzo per questo, un prezzo altissimo le cui ragioni restano insondabili. Siamo al punto di partenza, in certo senso: perché qui? perché adesso? perché proprio a noi? Verrà il tempo delle risposte, il tempo in cui sapremo. Per adesso non possiamo fare altro che immaginarci diversi (non migliori: diversi sarebbe già abbastanza). Adesso non possiamo smettere di credere. Non dobbiamo smettere, proprio adesso, di sperare.