Il colpo di Stato di giovedì scorso in Guinea Bissau è il sesto avvenuto nell’Africa Occidentale dopo quelli in Mali del 22 marzo scorso, in Niger nel 2010, in Guinea Bissau nel marzo del 2009, Guinea Conakry e Mauritania nel 2008. È un fenomeno allarmante sul quale occorre operare un serio discernimento; non foss’altro perché nella storia dell’Africa postcoloniale il golpismo non è mai stato esclusivamente legato alla lotta interna per il potere. Se da una parte è vero che i recenti colpi di Stato che hanno investito il settore occidentale del continente sono avvenuti in procinto di importanti appuntamenti elettorali, e dunque quando tra le leadership militari serpeggiava la convinzione che un governo civile sarebbe stato politicamente debole di fronte alle minacce alla sicurezza che incombevano all’orizzonte – di ordine socio, politico, economico e religioso (in riferimento al jihadismo) –, dall’altra questi tentativi di rovesciare le autorità democraticamente elette evidenziano ciclicamente il malessere strutturale che attraversa il continente. La presenza di oligarchie avvinte alle ex potenze coloniali, soprattutto attraverso la massoneria, e a interessi nepotistici da quando questi Paesi divennero indipendenti, ha sempre reso difficile la gestione della res publica. Sarebbe pertanto fuorviante dividere lo scenario tra buoni e cattivi pensando che le responsabilità ricadano unicamente sui golpisti. Vi sono infatti molto spesso colpe che pendono sugli stessi governi civili i quali in molti casi non hanno risposto adeguatamente ai bisogni delle popolazioni, disincentivandone la partecipazione alla vita civile. Sta di fatto che una volta preso il potere, i golpisti tendono sempre e comunque a promettere un ritorno alla democrazia, attraverso nuove elezioni, perpetuando in molti casi il potere già acquisito. Emblematico è il caso della Mauritania dove, nell’agosto del 2008, il generale Mohamed Ould Abdel Aziz prese il potere promettendo in tempi brevi nuove elezioni che si svolsero in effetti l’anno successivo, determinando la sua vittoria.
Nonostante le accuse di brogli e nepotismo, Abdel Aziz si considera con le carte in regola per governare il Paese. Una cosa è certa: questi ribaltoni avvengono sempre e comunque con complicità straniere, mai dichiarate, e strettamente connesse a interessi di tipo commerciale. La Francia, ad esempio, continua a ingerire pesantemente nelle vicende dei Paesi del Sahel, soprattutto per quanto concerne il controllo delle fonti energetiche (petrolio e uranio). Non è un caso se recentemente l’autorevole settimanale Jeuneafrique ha scritto che «Bamako sospetta Parigi di aver fatto un accordo con i ribelli tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad (Mnla)».
Citando un alto ufficiale dell’esercito maliano, habitué del palazzo presidenziale di Bamako, nell’articolo di Jeuneafrique viene ventilata l’ipotesi che la Francia abbia chiesto ai tuareg presenti nel deserto meridionale libico di lasciare Gheddafi, promettendo un deciso sostegno nella lotta di liberazione della regione settentrionale maliana dell’Azawad. La presenza in Francia di almeno quattro portavoce dello Mnla, come anche voci insistenti che da settimane circolano negli ambienti diplomatici africani relative a un sostegno francese in favore della ribellione tuareg, spingono a considerare che il governo di Parigi non sia del tutto estraneo alle recenti vicende maliane. E cosa dire della presenza dei cinesi che intrattengono proficue relazioni commerciali con tutti i regimi o presunte democrazie africane? Un business, quello del Dragone, che non pare assolutamente rispondere ai criteri di giustizia e di equità agognati dalla povera gente. Inutile nasconderselo, l’Africa è ancora ostaggio delle proprie ricchezze, dal Sahel alla Somalia, passando per il Sudan.
D’altronde a questo servono guerre e colpi di Stato, non certo al bene delle stremate popolazioni e al sogno del riscatto dall’onta coloniale.