Dice il Censis che nell’ultimo anno i delitti in Italia sono diminuiti del 10% rispetto all’anno prima. Che nel decennio gli omicidi si sono dimezzati, le rapine ridotte a meno di due terzi, i furti in forte flessione. Il Censis lavora coi numeri, coi dati. E noi, dati alla mano, dovremmo uscire dalla lettura almeno un poco rassicurati: non siamo sommersi dalla delinquenza, non siamo “assediati dal crimine”, non siamo sull’orlo del baratro. Anzi, la flessione globale dell’intera catena dei reati indica una miglior condizione, generale anch’essa, di oggettiva sicurezza. Ci attenderemmo dunque una ricognizione coerente dello stato d’animo degli italiani: più tranquilli, più fiduciosi. E invece.
E invece il Censis ci inonda d’altri numeri, e sono le cifre della paura. Una paura sorda, inquieta, stagnante come un sottile veleno, soprattutto nelle aree metropolitane dove un cittadino su due dice di sentirsi “insicuro”. Insicuro vuol dire che percepisce un pericolo, per la sua persona, per i suoi beni, non fronteggiato da adeguata protezione. Il sintomo di questa insufficienza percepita è la voglia di preparare da sé la propria difesa. Porte blindate, inferriate alle finestre, sistemi d’allarme, quasi tutti (92%) fanno qualcosa: una difesa passiva a mo’ di barriera, con un sentore di rifugio e forse già con la rabbia di un pedaggio pagato alla paura, un modo d’imprigionarsi a rovescio. Ma il sintomo più inquietante è il diffondersi dell’idea che a difendersi giovi il possesso di un’arma da fuoco.
È così: il 39%, registra il Censis nel suo Rapporto, è favorevole a introdurre criteri meno rigidi per munirsi di un’arma da fuoco. Per difesa, si capisce; ma quel che sa fare un’arma, quando si usa, non è una cosa passiva; è che ferisce, è che uccide.
Viene da ragionare sull’origine di questa percezione distorta del livello di pericolo, che segna lo scarto fra la sicurezza reale e la sicurezza “percepita”. Se dipenda da fattori psicologici legati a dinamiche sociali e demografiche, se sia alimentata dall’enfasi mediatica riservata al lato oscuro della vita e della cronaca, e persino su quanto pesi la tendenza a strumentalizzare anche questo, forse soprattutto questo, per fini politici. Certo, la paura, rispetto al raziocinio, appartiene al mondo delle emozioni; è forse la più radicata, la primordiale emozione, legata all’istinto, comune all’uomo e all’animale, che di fronte al pericolo dispone alla lotta o alla fuga. A suscitarla può essere una minaccia vera o una minaccia immaginaria. Il buio, o qualcosa di buio, o un residuo di buio come entità ostile è l’alone costante della paura. A dominare la paura, distinguendo la realtà dai fantasmi, serve intelligenza. Esiste una paura provvida, precauzionale, cosciente e accorta, che ci aiuta a scansare i guai. Esiste una paura fobica che senza ragione imprigiona la mente e ne diventa padrona, e fa amara la vita. Insisto: quanto spazio è dedicato dai media italiani al quotidiano racconto dei crimini, con insistenza sui dettagli più scabri? L’abbiamo sotto gli occhi. Secondo un Rapporto dell’Osservatorio Europeo sulla sicurezza (2017), c’è un’insicurezza che deriva dalla rappresentazione reiterata della criminalità; e questo «è un dato strutturale che caratterizzata l’informazione televisiva italiana». Lo stesso Rapporto segnala che otto italiani su dieci sono convinti che la criminalità sia cresciuta. Accade così che le regole del mercato informativo influenzano l’area della paura sociale. E infine questa stessa paura sociale può diventare mercato politico, facilitando gli umori populisti, com’è fin troppo chiaro. Non a caso sono risuonate in questi stessi frangenti, per bocca di chi dovrebbe darci la sicurezza di uno Stato di diritto, parole poco assennate in materia di revisione delle regole sulla legittima difesa. Le regole maestre di un codice già ritoccato (necessità, pericolo in atto, offesa ingiusta, proporzionalità) sono capisaldi che non si possono manomettere. No, non darebbe proprio sicurezza sostituire al loro raziocinio umori rusticani insensati.