Il dibattito sul 'suicidio medicalmente assistito' – dentro e fuori dal Parlamento – rischia di avvitarsi su sé stesso, attorcigliandosi sul palo della polarità tra indisponibilità della vita come bene fondamentale della persona e della società, da una parte, e autodeterminazione del soggetto vivente in ordine alle condizioni della propria esistenza, dall’altra. Una tensione, questa, che è rischia di rimanere politicamente irrisolta e insolubile se non si chiede, e si ottiene, un ragionevole sacrificio rispetto a ciò che ognuno dei due 'poli' ha messo sul piatto della bilancia della giustizia.
Il caso serio è quello di uno strappo legislativo che lasci nel tessuto politico e sociale una lacerazione che andrebbe ad aggiungersi a quelle già vistosamente presenti, non solo nel nostro Paese, nell’habitus dell’etica e del diritto sulla frontiera della vita e della morte. Allungando lo sguardo al di là dell’Atlantico, è nota la lunga vicenda del mai chiuso scontro sociale e politico tra pro-life e pro-choice sulle leggi americane che riguardano l’inizio e la fine della vita umana.
È possibile staccare il cacciavite da questa vite senza (ancora) fine che, per quanto continui a girare, non serra mai i due pezzi da congiungere? O, peggio, dilata la fessura, allarga lo iato tra le due dimensioni coessenziali e irriducibili dell’antropologia: la vita e la libertà. Si intravvede un’alternativa percorribile?
Un sentiero da esplorare con coraggio e fino in fondo è quello tracciato nel 2019 dalla decisione della Corte costituzionale italiana sul 'caso Dj Fabo' in riferimento all’articolo 580 del Codice penale. È la via del mantenimento del reato di aiuto al suicidio, da chiunque e per qualsivoglia ragione intrapreso, con la cancellazione della punibilità del reo quando sussistono circostanze particolari. La stessa Consulta ne ha indicato quattro che si riferiscono allo stato della persona che vuol darsi la morte: patologia irreversibile per la quale non esistono terapie, sofferenza intollerabile nonostante la sedazione del dolore, applicazione di trattamenti di sostegno delle funzioni vitali, capacità del malato di prendere decisioni consapevoli e libere. Il legislatore potrebbe ulteriormente precisare queste circostanze relative al paziente, fermo restando che esse sollevano coloro che collaborano materialmente e formalmente al suicidio dalla punibilità penale, ma non estinguono il reato.
Occorre sottolineare un punto decisivo di questa via. Depenalizzare un’azione ingiusta non equivale a considerarla come giusta. E se giusta non è, non può essere incoraggiata né allargata al di là delle strette circostanze previste dalla Consulta o dal legislatore. Non può scavalcare «la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana», come la Corte ha ribadito nel dichiarare inammissibile il referendum sull’eutanasia. Del resto, è opinione diffusa tra i costituzionalisti che la Corte non ha reputato incostituzionale il reato di aiuto al suicidio in generale, ma la punizione di questo aiuto in presenza delle quattro circostanze sopra ricordate.
La strada della depenalizzazione limitata non esclude l’affermazione dell’indisponibilità della vita umana come bene personale e comune e la doverosa tutela giuridica che ne consegue, soprattutto nelle condizioni di maggiore debolezza e vulnerabilità, come la Consulta ha richiamato. E non nega neppure l’esercizio della libertà del malato che si trova in queste condizioni e si determina in ordine al procurarsi la morte chiedendo la collaborazione di altre persone.
Una scelta che non è un diritto (a fronte del quale si configurerebbe un dovere di aiuto, non un reato), ma che viene rispettata pur nella sua drammatica negatività, facendo tutto il possibile (medicalmente, psicologicamente, affettivamente e socialmente) perché nessuno la invochi, senza però poterla impedire. Questa direzione tutela anche la missione sociale della medicina, il suo scopo ordinato al bene comune della vita, quella di tutti e di ciascuno.
La depenalizzazione in alcune circostanze dell’aiuto che il singolo medico o infermiere decide di fornire a chi chiede di porre fine ai propri giorni, non fa della medicina o dell’infermieristica uno strumento legale per la morte. Riconosce solo che non è perseguibile penalmente chi agisce in tal senso e non è coercibile chi decide di non farlo. Un tributo alla coscienza che vale non solo per l’ammalato, ma anche per il medico e l’infermiere.