Illustrazione di Doriano Solinas - Avvenire
Il colletto bianco batte il colletto blu 2 a 1, il dirigente risparmia più dell’operaio, o se vogliamo, al borghese va meglio del proletario. Le cifre non vengono da un testo di Karl Marx ma dall’approfondito studio dell’Upb, l’Ufficio parlamentare di bilancio, autorità indipendente sui conti pubblici, che ha sottolineato come, guardando ai lavoratori dipendenti e tirando le somme, i dirigenti abbiano avuto dalla riforma Draghi-Franco un taglio medio dell’Irpef di 368 euro e gli operai di soli 162. Il virus della diseguaglianza, che ha fatto capolino negli algoritmi del governo, non emerge solo dalla cifra a forte effetto che divide l’operaio dal proprio capo ufficio, ma anche da una valutazione complessiva di come sono state distribuite le risorse tra i ceti sociali. La torta che aveva in mano Draghi era di circa 7 miliardi e il problema era: a chi indirizzare il taglio delle imposte? Con due condizioni avanzate con fermezza dai partiti di maggioranza, naturalmente in vista delle elezioni e della ricerca di consenso: tutti devono guadagnare e l’aliquota massima del 43% non deve aumentare.
Così, con questi vincoli, si è affondato il coltello nella torta. A quelli che hanno un imponibile lordo sotto i 42mila euro, circa il 92,4% dei contribuenti è andato il 76,3% delle risorse, cioè 5,4 miliardi dei 7,2 miliardi complessivi e a quelli sopra i 42mila, meno del restante 8% dei contribuenti, sono andati gli altri 1,8 miliardi, cioè il 23,7% delle risorse. Più a quelli in basso e meno a quelli in alto? A prima vista sembrerebbe la via più equa, salvo che sotto i 42mila euro lordi annui di reddito c’è il 92,4% dei contribuenti che dovranno dividersi da quest’anno 5,4 miliardi con una quota procapite più bassa di riduzione delle imposte. Mentre gli 1,8 miliardi destinati agli over 42mila andranno alla più ristretta platea dei redditi più alti, cioè meno dell’8% dei contribuenti, con una quota capitaria ben più alta.
L’Ufficio parlamentare di bilancio ha sottolineato
Del resto le cifre su cui ci si è azzuffati nelle ultime settimane, tra fautori dei tagli di tasse rappresentati in percentuale e quelli che hanno preferito il numero assoluto, sono un indicatore eloquente dell’alta tensione che ha accompagnato l’Operazione Irpef 2022. Esempio: in termini percentuali un lavoratore che guadagna 18mila euro lordi vedrà quest’anno ridursi le tasse in busta paga dell’1,50%, quello che guadagna 48mila avrà un taglio percentualmente simile, dell’1,63%. Peccato che per il basso reddito parliamo di 256 euro e per quello più alto di 780. Cipputi agita l’ombrello quando vede che, in termini assoluti, il taglio delle sue imposte è solo un quarto di quello del suo superiore dei piani alti, ma il principio della progressività che vale quando si paga (dà di più in termini percentuali allo Stato chi guadagna di più) vale anche quando le tasse si riducono: piglia di più chi già può contare su uno stipendio più alto. Bisogna accettare quello che diceva Einaudi: per il povero i soldi valgono molto di più perché con 10 lire (dell’epoca) ci compra la minestra, mentre il ricco acquista la poltrona al teatro. Naturalmente a contare, come abbiamo visto, sono le proporzioni che determinano la divisione della torta.
Mettendo in pericolo l’equità si è intervenuti sul meccanismo delle aliquote e si è rischiato di scavare sotto il terreno della progressività: se si taglia di 2 punti, da 27 a 25 l’aliquota per lo scaglione di chi guadagna dai 15 ai 28 mila euro, non si avvantaggia solo chi sta dentro lo scaglione stesso, ma anche tutti coloro che stanno sopra, limitatamente a quella fascia di reddito. Alla fine il rischio è stato evitato, l’impronta progressiva resta anche se meno stringente facendo perno su quattro invece che su cinque aliquote, con l’aiuto di un rafforzamento in corsa delle detrazioni e di alcune piccole 'toppe'. Non si poteva fare altrimenti: la soluzione, avanzata in un primo momento dal governo di portare sino a 8 miliardi i tagli Irpef è stata subito accantonata, mentre l’idea di Draghi di congelare il taglio di due anni per i redditi sopra i 75mila euro per trovare risorse per la sterilizzazione delle bollette 'roventi', ha trovato un muro tra alcuni partiti della maggioranza. Con questi limiti e la richiesta esplicita del Parlamento di favorire i redditi medi e di agire sulle aliquote, era difficile intervenire sulla strada che, secondo Confindustria, sindacati e l’ex ministro del Tesoro Vincenzo Visco, avrebbe unito più soldi in busta paga e più sviluppo: un intervento organico sul cuneo fiscale.
Chiarito che qualche squilibrio c’è stato, non si può fare a meno di notare che se si interpreta la riforma Draghi- Franco (che comprende anche una fiscalizzazione dei contributi per i redditi più bassi) come un passaggio intermedio che le- ga i vecchi interventi 'bonus' di Renzi e Conte-Gualtieri e la successiva realizzazione della delega fiscale chiesta dal governo al Parlamento, le cose possono assumere un’ottica diversa. Negli ultimi sette-otto anni i bonus da 80 euro di Renzi, portati a 100 da Gualtieri hanno beneficiato proprio i redditi fino a 40mila euro, che oggi sono meno favoriti, con un impegno complessivo di circa 15 miliardi (9 Renzi e circa 6 Gualtieri). Un segnale ai ceti medi forse ci stava, tenendo conto anche delle richieste della maggioranza parlamentare, ma è al successivo passaggio che bisogna guardare: la legge delega non potrà fare a meno di intervenire sui valori catastali ambito dove i ceti medi oggi favoriti già beneficiano, come tutti, dell’esenzione dell’Imu sulla prima casa; verificare la mini flat tax; dovrà probabilmente rompere il tabù della tassazione delle rendite e dei patrimoni ormai chiesto a viva voce, oltreoceano, anche dai democratici Usa.
Nell’ottica di una riforma che va vista come un passaggio tra il vecchio e il nuovo, c’è inoltre da segnalare come ha fatto l’economista Simone Pellegrino su lavoce.info, parlando di «maggiore efficienza del sistema» che la Draghi-Franco risolve l’annoso problema delle aliquote marginali effettive, cioè quel fenomeno che portava a tassare fino al 60% aumenti di stipendio, straordinari o rinnovi contrattuali per via della riduzione decrescente dei bonus. La vasta maggioranza di sinistracentro- destra, il pressing della Lega e delle anime no-tax che hanno come vocazione lo starving the beast, cioè ridurre le tasse solo per limitare le possibilità di spesa dello Stato oppure la teoria del trickle-down, (lo 'sgocciolamento' della ricchezza dall’alto in basso) hanno impedito che si facesse di meglio. Accendendo però involontariamente un faro su un tema di analisi economica che in futuro, nell’era del Next Generation Eu, bisognerà avere ben presente: il dibattito fino ad oggi è stato limitato ai tagli, in ogni Finanziaria, si discuteva al massimo se dovessero essere lineari e indiscriminati o chirurgici. Ora è tornata l’era di distribuire risorse, il declino economico, come sostiene Massimo Baldini dell’Università di Modena, ha aumentato l’attesa e la richiesta di benefici fiscali.
Dunque bisogna redistribuire, come sta avvenendo, ma per farlo non basta più usare «uno strumento per un obiettivo»: come segnalava l’Asvis di Enrico Giovannini (ora ministro delle Infrastrutture e della Mobilità sostenibili) ci vuole, anche per le tasse, «uno strumento per più obiettivi», non solo crescita, ma anche ambiente, equità e altro. Così il lavoro degli economisti e dei decisori politici diventa più difficile: perché bisogna fare uno slalom accorto per evitare di scivolare sulle diseguaglianze. Esempi ce ne sono: il superbonus del 110% costato fino a oggi 13 miliardi, mezzo gettito Imu, spesi per lavori eseguiti nelle fasce catastali più elevate, cioè uno sconto andato prevalentemente ai più ricchi. È bene non scivolare. Come secondo più d’uno è avvenuto lasciando il via libera all’aumento legato all’inflazione del tetto di 240mila euro lordi per i funzionari pubblici, una bandiera di sobrietà non sempre sventolata a proposito, ma che sempre dovrebbe accompagnare la ripresa delle politiche di spesa.
Con l’articolo di oggi, inizia la collaborazione con 'Avvenire' di Roberto Petrini, giornalista e storico dell’economia, già firma di punta e inviato del quotidiano 'la Repubblica'