martedì 26 marzo 2013
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Le recenti convulsioni della Repubblica Centrafricana, ridente giardino dal sottosuolo ricco di diamanti, oro e uranio un tempo regno del famigerato Jean Bédel Bokassa, non debbono trarre in inganno. Perché l’ennesimo golpe che si è consumato in questi giorni sotto l’occhio benevolo dei parà francesi non è che una tessera del più vasto domino cui la Francia continua a giocare sulle ceneri di quello che fu il suo impero africano. Dal Senegal alla Costa d’Avorio, da Gibuti al Gabon, dal Camerun al Ciad, al Mali un robusto revival che si fatica a non chiamare neocolonialista contrassegna da qualche anno la politica dell’Eliseo. E poco importa che il primo cittadino sia Sarkozy piuttosto che Hollande, neogollista piuttosto che socialista: con un pizzico di malizia potremmo arguire che più si sfarinano i primati economici e finanziari della Francia (il 2012 a crescita zero, 3 milioni di disoccupati, spesa pubblica al 56,3% del Pil) e più si acuisce l’interventismo di Parigi nei confronti dell’Africa e del Medio Oriente. Intendiamoci, la Francia è in buona compagnia. Inglesi e americani trafficano – ora in prima persona, ora utilizzando compiacenti mandatari – come e quanto Parigi per mettere le mani su tutto ciò che nel continente africano è economicamente appetibile, per non dire delle avventure militari che Washington e il suo fidatissimo alleato britannico hanno allestito negli ultimi vent’anni in Medio Oriente. Tuttavia in questo vasto risiko a cavallo tra la mezzaluna fertile e l’Africa subsahariana vi sono delle controindicazioni, o come si direbbe in gergo militare, dei collateral damages,, danni collaterali. Pensiamo al forsennato intervento francese in Libia, giusto due anni fa. All’ombra della Nato, certamente, ma come ricorderete non scevro della cupidigia che le compagnie petrolifere francesi malamente dissimulavano nei confronti del ricco parterre di giacimenti nel Golfo della Sirte, tradizionalmente riserva di caccia degli italiani. Inutile chiudere gli occhi di fronte all’evidenza: quasi tutte le guerre dietro alle nobili cause nascondono appetiti territoriali e commerciali più o meno confessabili. Ma il danno inferto dai francesi con la caduta di Gheddafi (da tutti auspicata, senza remore, ma al tempo stesso temuta per le conseguenze che avrebbe comportato) e in genere con la propria politica africana non è di poco conto. Perché in fondo si sapeva che abbattendo il moribondo regime del rais (con l’attivo concorso inglese e del Qatar) si apriva la porta a quel radicalismo fino ad allora sotterraneo, contrastato e in parte sopito ma che in breve si è saldato da una sponda all’altra dell’Africa sotto le insegne di al-Qaeda poggiando sulla frangia più intollerante e pericolosa dell’islamismo politico, quella dei salafiti. Risultato: da una parte una Libia instabile e ingovernabile spezzettata in cento feudi tribali e dall’altra una nuova sterminata linea rossa del jihadismo, da Mogadiscio a Timbuctu, ribollente di sigle sinistre, si chiamino Boko Haram piuttosto che Shabaab o Corti islamiche. Hollande e il suo grande suggeritore Bernard-Henri Lévy la chiamano «la lotta per la democrazia contro i taleban della sabbia». Se questo è il prezzo della grandeur panafricana francese (mettiamoci però nel conto anche gli ostaggi – non solo francesi – che non torneranno più a casa), ci pare obiettivamente un po’ troppo caro per i popoli colpiti e per tutti noi. Post Scriptum: in questi giorni La Libia ha negato l’ingresso a Lévy che intendeva accompagnare l’ex presidente Sarkozy in visita a Tripoli per il secondo anniversario dell’intervento francese: troppi rischi per la sua sicurezza, dicono le fonti ufficiali. Ironia della Storia: il massimo ispiratore della campagna di "liberazione" della Libia resta confinato fuori dalla porta. Uno smacco atroce per il philosophe più venerato di Francia.
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