Manifestazione a Parigi contro la riforma delle pensioni dello scorso marzo - Epa
Agli sgoccioli della kermesse scintillante, è salita sul palco traballando un po’, scossa visibilmente dall’emozione. Davanti alla regista francese Justine Triet, vincitrice a Cannes della Palma d’oro 2023, un parterre de rois intercontinentale della settima arte, assieme a tanti rappresentanti istituzionali transalpini, pronti ad acclamarla nella cerimonia di premiazione. Ma dopo i ringraziamenti di rito, la 44enne ha superato ogni esitazione appena si è messa a strigliare la «mercificazione della cultura che il governo neoliberista difende» in Francia, così da «rompere quest’eccezione culturale francese» senza la quale tanti giovani artisti non sfonderebbero. Parole di fuoco che hanno raggelato l’entusiasmo di tanti, mandando su tutte le furie un’altra 44enne, la ministra della cultura Rima Abdul Malak, pronta poco dopo a dichiararsi «sconcertata» dal discorso «ingrato e ingiusto » di una cineasta già foraggiata da tante sovvenzioni.
Così vanno dunque le cose in Francia, dove pure nel bel mezzo d’un trionfo supremo può di colpo zampillare un tipo di rabbia davvero molto gallica: il risentimento per il declino, vero o presunto, di quel welfare su cui dal Dopoguerra s’è saldata la fiducia fra cittadini e République. Assegni e incentivi generosi agli artisti d’ogni tipo, certo, ma soprattutto alle famiglie, alle donne costrette a crescere i figli da sole, ai disoccupati, ai portatori di handicap, ai meno abbienti per riempire il carrello della spesa, agli automobilisti delle aree rurali nei mesi del caro-benzina, a chi si dota di auto elettriche e altri equipaggiamenti ecologici e così via. Nei decenni, l’ampio ventaglio in continua evoluzione di sussidi, sgravi, agevolazioni, rimborsi, quozienti fiscali e altri aiuti alle famiglie e ai cittadini bisognosi o meritevoli è divenuto uno dei pilastri di tutto un modo di concepire il capitalismo: quell’interventismo statale che, oltre a certi settori strategici dell’economia investe pure la vita quotidiana. Un modello tanto rodato da orientare ad esempio il giudizio sul liberismo di stampo anglosassone che, “vetero” o “neo” che sia, suona per molti francesi – non solo fra gli artisti engagés – quasi come una parolaccia.
Negli ultimi mesi, a ben guardare, la veemenza del braccio di ferro fra governo e sindacati sulla riforma delle pensioni ha dato il senso dello spartiacque imminente temuto oggi da milioni di francesi. Per riequilibrare l’annoso deficit del sistema pensionistico, l’esecutivo contava di portare l’età pensionabile da 62 a 65 anni, prima di “accontentarsi” del gradino dei 64, con varo parlamentare non per questo meno tempestoso. Una riforma certamente discutibile, ma tutt’altro che imprevista: il presidente Emmanuel Macron l’aveva infatti inserita nella parte alta dei programmi elettorali di entrambe le corse vittoriose per l’Eliseo. Senza contare che quasi tutti i suoi predecessori avevano fatto lo stesso, evitando poi di concretizzare. D
Dai fedelissimi, il capo dell’Eliseo è oggi lodato per il suo «coraggio». Ma nel frattempo, fra gli studiosi, non pochi collegano la bufera degli ultimi mesi proprio al timore diffuso che la posta in gioco, in realtà, fosse l’inizio della fine del “modello sociale” alla francese. Come in quei cartoni animati in cui il topolino maldestro di turno, agitando una zampetta, finisce per disfare in un baleno il maglione o la coperta lavorati pazientemente ai ferri da una placida nonnina.
In effetti, il sistema pubblico di aiuti è percepito da molti francesi proprio come una “calda coperta” protettiva. Tanto che il verbo «proteggere», a farci caso, è fra quelli immancabili in ogni discorso dall’Eliseo che si rispetti. A proteggere, naturalmente, è la République, contro le cattive congiunture o le minacce vicine. Com’è noto, la “calda coperta” è una chiave di certe specificità francesi molto ammirate all’estero, come una natalità ben più dinamica rispetto agli altri Paesi Ue, o la relativa disponibilità di posti all’asilo per i figli. Ma per l’Eliseo difendere il proprio modello sociale pare oggi molto meno semplice che in passato, per almeno due ragioni. Innanzitutto, sul piano politico, le opposizioni d’ogni colore, dall’estrema sinistra all’estrema destra, si sono abituate a denunciare ogni presunto ridimensionamento della generosità pubblica. Le congiunture difficili, come quella attuale segnata dall’inflazione, favoriscono così requisitorie a raffica sugli aiuti che l’esecutivo si rifiuterebbe di concedere o non elargirebbe a sufficienza, così come su quelli che avrebbe forse l’intenzione di ridurre o ritirare. Un gioco in cui a far la voce grossa sono ormai soprattutto i partiti più estremisti e populisti, come quelli della leader ultranazionalista Marine Le Pen o del “tribuno rosso” Jean-Luc Mélenchon (col timore che proprio nel giorno della festa nazionale, oggi, qualcuno voglia cavalcare il temuto ritorno delle proteste dalle banlieue parigine). In altri termini, l’abitudine alla “calda coperta” rischia di favorire, paradossalmente, uno scadimento deleterio del dibattito politico. Non a caso, il primo cavallo di battaglia dell’ultradestra francese non è più il nodo migratorio ma sono gli aiuti contro il carovita. Una strategia che ha permesso a Marine Le Pen un’ulteriore ascesa nei sondaggi. Tanto che, secondo certi rilevamenti, finirebbe in testa al primo turno se le presidenziali si svolgessero domani. Vanto storico del Paese, il welfare rischia vieppiù di essere strumentalizzato come uno specchietto per le allodole elettoralistico.
Al contempo, per Parigi, il rompicapo del welfare è oggi pure contabile, dopo gli sforzi statali eccezionali compiuti per sostenere l’economia e tante categorie professionali durante la pandemia. In effetti, negli ultimi anni, il debito pubblico è volato alle stelle, superando la soglia del 110% del Pil. Cifre che accentuano l’esposizione a declassamenti della Francia da parte degli operatori finanziari: l’agenzia Fitch, ad esempio, ha appena ritoccato il suo giudizio sulla qualità debito di Parigi (da “AA” a “AA-”), con immediato disappunto del governo. Eppure Macron ha di certo ben capito che in quest’epoca agitata, fra guerre e rincari, il paradigma della “calda coperta” tende a divenire ancor più centrale nell’immaginario nazionale. In fondo, è mai concepibile uno Stato protettore che si tira indietro in piena crisi? Così, da qualche tempo, si osserva in Francia persino un curioso paradosso, un po’ all’insegna del vecchio adagio secondo cui la migliore difesa è l’attacco.
Il principio assodato di mantenere un alto livello di spesa pubblica non solo resta nella cabina di pilotaggio del Paese, ma ispira pure certi riorientamenti dell’azione politica e delle sue priorità. In particolare, come mai prima, l’esecutivo della premier Élisabeth Borne ha appena suonato la carica su due fronti fin qui meno battuti da Parigi: la lotta contro gli illeciti fiscali d’ogni tipo e quella contro le frodi allo stesso welfare. Arruolando ingenti rinforzi nei servizi fiscali e non esitando più a ingaggiare complesse battaglie giudiziarie, la Francia ha messo in particolare nel mirino come mai prima le pratiche di elusione dei grandi gruppi bancari o delle multinazionali, cominciando a ottenere qualche risultato tangibile. Ma nei prossimi anni, prevarranno gli effetti virtuosi o quelli deleteri della “calda coperta”? Un interrogativo più cruciale che mai per i futuri connotati francesi. Da una parte, lo scenario di un Paese ancora erede della douce France cantata da Charles Trenet. Dall’altra, quello di un ginepraio potenzialmente incontrollabile, fra strepiti di rivendicazione e voragini contabili.