La riforma del sistema carcerario è una sfida in cui si sono cimentati tanti governi con alterni risultati, e quello attuale non fa eccezione. Le ricette si sprecano, nessuna probabilmente è risolutiva, certo è che la soluzione non può venire dalla moltiplicazione dei penitenziari, come qualcuno continua a sostenere. Anche perché per molti proprio il periodo della detenzione diventa una scuola del crimine: anziché incontrare occasioni di rieducazione, come dice a chiare lettere l’articolo 27 della Costituzione italiana, si incontrano cattivi maestri e si esce peggiori di quando si è entrati, o si vive in condizioni tali da aumentare il senso di inimicizia nei confronti della società.
Invece di aumentare le dimensioni del pianeta carcere si deve puntare a farlo dimagrire. Oltre che dibattere sui provvedimenti generali utili a raggiungere questo irrimandabile obiettivo – indulto, amnistia, depenalizzazione di certi reati – è necessario incrementare le esperienze che dimostrano di essere realmente alternative alla detenzione e che si muovono nella logica di una giustizia rieducativa e non vendicativa. Perché – con buona pace di quanti si lamentano per l’aumento della criminalità – la sicurezza della società è direttamente proporzionale alla possibilità di recupero di coloro che hanno sbagliato.
Da più di vent’anni è attiva in Italia un’esperienza che si muove in questa direzione: si chiama Cec, acronimo di Comunità educante con i carcerati, nasce dal rigoglioso albero della Comunità Papa Giovanni XXIII fondata da don Oreste Benzi. In questi giorni (fino al 13 settembre) Bologna ospita una mostra che presenta il modello delle Cec, presenti in Emilia-Romagna, Toscana, Abruzzo e Piemonte, e quella delle Apac (Associazione per la Protezione e Assistenza Carcerati), nata sessant’anni fa in Brasile, riconosciuta dall’Onu come eccellenza nel panorama mondiale e a cui la Cec per molti versi si ispira. Niente pietismo né assistenzialismo, certezza della pena e alte garanzie di recupero. È possibile uscire dal tunnel della delinquenza creando “case aperte”, luoghi di espiazione alternativi al carcere dove vivere in una dimensione familiare e comunitaria, affrontando un cammino educativo a cui si accede in accordo con la direzione carceraria e il magistrato preposto. Il percorso, accompagnato da operatori e volontari, comprende la presa di coscienza del male compiuto e dei danni causati alla società e a sé stessi, una proposta di fede offerta alla libertà degli ospiti, la valorizzazione delle relazioni umane, l’apprendimento di un lavoro, la costruzione di reti di collaborazione con il territorio e le imprese locali, l’acquisizione di una nuova consapevolezza della propria dignità da parte dei “recuperandi”, come vengono chiamati dai volontari della Papa Giovanni XXIII. Perché, come amava ripetere don Benzi, «l’uomo non è il suo errore». E sono gli stessi “recuperandi” che in questi giorni raccontano ai visitatori le loro “ripartenze” umane, per dare pubblica testimonianza del cambiamento avvenuto e del contributo che da questo cambiamento deriva alla società tutta.
Anche i numeri parlano chiaro: solo il 15 per cento di chi è stato ospite delle Cec torna a delinquere dopo avere scontato la pena, a fronte del 70 per cento di recidiva nella popolazione detenuta a livello nazionale. E mentre una persona detenuta in carcere costa mediamente allo Stato 200 euro al giorno, nelle Cec si scende a 50, a costo di grandi sacrifici e con il contributo di tanti donatori. In definitiva, per lo Stato è cosa conveniente sostenere la crescita di realtà come queste, sia sotto il profilo economico, sia per i risultati che si ottengono nel reinserimento sociale, sia per il guadagno che ne deriva alla convivenza in termini di sicurezza. Sarebbe un modo per realizzare quel principio di sussidiarietà tanto decantato quanto poco praticato, e un contributo al dimagrimento del pianeta carcere. Si può fare, e allora si aiuti – anche finanziariamente – chi lo fa.
Scontare la condanna vivendo in queste comunità è l’occasione di una svolta radicale per le persone detenute, che incontrano luoghi dove la loro umanità può rifiorire, dove possono misurare la convenienza del bene e sentirsi guardati nella loro dignità di persone amate.Perché, come recita il titolo della mostra che documenta questi percorsi di rigenerazione, “dall’amore nessuno fugge”.