Tra il 2006 e il 2015, cioè tra l’assassinio della giornalista Anna Politkovskaja e quello del politico riformista Boris Nemtsov, è stata attribuita a Vladimir Putin una lunga serie di omicidi eccellenti, tentati o realizzati. E la cosa è ripresa con l’invasione dell’Ucraina, a causa delle morti sospette di personaggi più o meno (quasi sempre meno) di spicco. Nessuno di quei casi, però, nemmeno il più clamoroso, portava stimmate dell’assassinio di Stato così chiare come la morte di Evgenij Prigozhin e del suo braccio destro Dimitrij Utkin. Ora siamo tutti impegnati con la cronaca di una morte annunciata, tanto che solo qualche giorno fa il sito inglese Bellingcat, assai introdotto negli ambienti dei servizi segreti occidentali, l’aveva predetta. Annunciata e proprio per questo esemplare, emblematica, ammonitrice.
È lo stile di Putin. Che non insegue omicidi sparsi, non va a caccia di vecchie e inutili spie o di ex ministri rancorosi, ma colpisce uno per ammonire cento. Era stato così con la Cecenia: una guerra senza pietà per far capire alle Repubbliche che l’era del “liberi tutti” di Boris Eltsin era finita e lo Stato centrale era tornato. Era stato così con il petroliere Mikhail Khodorkovskij, da uomo più ricco di Russia a galeotto in un attimo, colpevole di voler trattare con le corporation Usa quel petrolio che per il Cremlino è stato ed è risorsa economica e attrezzo di politica estera. È stato così con la Georgia nel 2008, colpita per far capire che per la Nato non c’è posto ai confini con la Russia. Il “caso Prigozhin” è nella stessa linea: c’è la guerra, dubbi (cinque anni di prigione per “denigrazione delle forze armate”) e dissensi non sono più permessi, figuriamoci cercare di spaccare il fronte combattente criticando i vertici delle forze armate o tentare un’improbabile ma clamorosa “marcia su Mosca” come quello messo in scena in giugno dal capo della Wagner. Qualcosa poteva farlo capire più chiaramente di un aereo che precipita?
Fino al fatale 24 giugno dell’insurrezione, Prigozhin aveva giocato molto bene le proprie carte. Il Gruppo Wagner si era guadagnato molte benemerenze del Cremlino al fronte, in mesi difficili per le forze armate russe. E il suo leader era riuscito a trasformarlo in una specie di collettivo bogatyr, gli eroici cavalieri delle tradizioni medievali russe, senza macchia e senza paura e soprattutto, nella declinazione di Prigozhin, desiderosi solo di combattere per la patria senza mischiarsi con le camarille e gli intrighi dei comandi, dei generali, dei ministeri. Putin, però, aveva scelto proprio questi: il capo di Stato maggiore Gerasimov e il ministro della difesa Shoigu, odiatissimi da Prigozhin. Decisione logica, perché nessun leader di un Paese in guerra si mette contro le forze armate. Perché, come l’attuale situazione sul campo forse dimostra, aveva buone ragioni per farlo. E anche perché la politica russa non è un pranzo di gala.
Shoigu è in giro dai tempi di Eltsin e bisogna avere la scorza dura per restare tanto tempo vicini al vertice senza bruciarsi. Non solo. Putin aveva anche firmato una legge, chiesta proprio da Shoigu, che obbliga le milizie private a sottostare ai comandi dell’esercito. Kadyrov, il leader ceceno che in un primo tempo aveva condiviso le polemiche di Prigozhin, aveva fiutato il vento e si era allineato. Prigozhin no, ed era rimasto solo. Un bersaglio. Il leader del Gruppo Wagner aveva tutte le caratteristiche per fare la fine che ha fatto.
Aveva tradito il capo: da “cuoco di Putin”, com’era definito con disprezzo, grazie alla benevolenza del Cremlino era diventato una potenza, prima direttore degli hacker russi accusati di ogni cosa (dalla Brexit alla ribellione della Catalogna all’elezione di Donald Trump) e poi dell’esercito mercenario più potente del mondo. Si era dimostrato incontrollabile, come in certo linguaggio mafioso “non faceva più squadra”. Era popolare. Controllava ancora il Gruppo Wagner che, negli anni, si è dimostrato uno strumento importante della penetrazione russa in Africa.
Ancora tre giorni fa, Prigozhin si faceva filmare armato di tutto punto nel Sahel, dove diceva di voler operare «per la gloria della Russia». Ma il Cremlino poteva accettare di passare attraverso Prigozhin per servirsi della Wagner, oppure permettere che migliaia di uomini pronti al combattimento rimanessero a far la muffa in un accampamento in Bielorussia? Troppe cose per una persona sola, in un’epoca in cui di personalismo è ammesso solo quello putiniano. La morte di Prigozhin chiude forse una “pratica” spinosa per il Cremlino ma apre le porte ad altre domande.
Che sarà del Gruppo Wagner? Se anche i suoi soldati dovessero essere licenziati o riassorbiti nell’esercito, resterebbero gli uomini dispiegati in Africa. Senza di loro, la politica di penetrazione della Russia sarebbe da reinventare. E quanto è (o era) profonda la simpatia per Prigozhin anche all’interno delle forze armate? Nelle ore del disastro aereo sono stati destituiti dal comando diversi alti ufficiali, primo fra tutti il generale Surovikin, da molti ritenuto l’artefice delle opere di difesa che ora respingono l’offensiva ucraina. Se, come crediamo, di assassinio di Stato si tratta, Putin sapeva di eliminare un elemento che disturbava la stabilità del sistema, quindi sapeva che il sistema l’avrebbe approvato.
Non è senza significato che, in due anni di crisi profonda, militare, sociale ed economica, non sia stato cambiato nemmeno un ministro. Simul stabunt vel simul cadent, insieme resisteranno oppure insieme cadranno, dicevano gli antichi. Ma Prigozhin non aveva studiato il latino.