Se non piovessero granate su Mariupol, Irpin e Odessa, strapperebbe forse un sorriso amaro la coda chilometrica dei moscoviti per l’ultimo Big Mac al Mc Donald’s di Piazza Pushkin, inaugurato nel 1990, quando esisteva ancora l’Unione Sovietica. Se i razzi Grad e i colpi di cannone e di mortaio non sventrassero le scuole e le case di Kharkiv, seconda città ucraina, i muri e tetti di Mykolayiv o gli ospedali di Mariupol e di Donetsk, verrebbe quasi da indugiare sui danni collaterali che l’ideologia del consumo e il suo apparente trionfo globale hanno provocato per quarant’anni alle culture locali.
Ci eravamo probabilmente illusi che il feticismo delle merci potesse in fondo avvicinare mondi distanti, trasformare ogni angolo del pianeta in uno spazio neutrale in cui tutti potessero incontrarsi bevendo una Coca Cola o comprando a pochi euro, dollari o rubli un paio di jeans H& M. E allo stesso tempo abbiamo provato in tanti, fra chi ha potuto viaggiare, quella strana sensazione di visitare città di Paesi lontani trasfigurate in un solo immenso centro commerciale, sempre lo stesso, con le insegne omologate, i medesimi odori e vestiti.
Fino a diventare i 'nonluoghi' di Marc Augè: spazi anonimi, stereotipati, privi di profondità storica e quindi di tradizione e identità. Certo, se non avessimo davanti agli occhi i corpi straziati dei cittadini ucraini e i morti fra i soldati russi spediti a invadere un Paese gemello dal presidente Vladimir Putin, sarebbe anche utile affilare il ragionamento sul lato oscuro della civiltà del consumo, quello dal quale ci aveva messo in guardia proprio l’inventore del concetto di 'neoliberismo', Alexander Rüstov: una società consegnata unicamente alla legge del mercato diventa sempre più inumana e genera al suo interno fenomeni di rigetto, provocando alla fine 'l’espulsione dell’altro', perché l’altro è integralmente sottomesso alla teleologia dell’utile e del 'valore' economico. Potremmo insomma considerare che in fin dei conti è proprio così che l’Occidente, senza spargere sangue, ha provato a conquistare il mondo. Alimentando però quel serbatoio di risentimento cui attinge ogni nazionalismo e in cui pescano le tante forme di xenofobia, la paura del diverso.
Ma in questo momento, di fronte a chi fugge da una violenza distruttiva e insensata, una guerra che non ha in alcun modo voluto o cercato, sarebbe probabilmente un esercizio sterile. Sarebbe soprattutto un indugiare stonato. L’addio dei tanti brand simbolo della globalizzazione dalle città russe fa piuttosto rimpiangere la geopolitica del Mc Donald’s teorizzata negli anni Novanta, quelli della perestrojka, dall’editorialista del 'New York Times' Thomas Friedman e che suona più o meno così: due Paesi che hanno entrambi un fast food non hanno mai combattuto una guerra l’uno contro l’altro.
Ebbene, l’invasione russa dell’Ucraina ha spazzato dalla sua breve storia la cosiddetta 'dottrina degli archi d’oro' che, pur nell’apparente egemonia neoliberista, non teneva purtroppo conto delle differenze sostanziali fra democrazie liberali, 'democrature' e dittature vere e proprie. La chiusura degli 847 ristoranti americani ci riporta inoltre al perché i marchi simbolo del consumismo – per come lo abbiamo conosciuto fino a ieri, almeno, nel mondo anteguerra – hanno deciso di abbandonare la Russia: l’onda d’urto economica è al momento l’unico strumento di pressione per cercare di alimentare il dissenso interno al regime di Vladimir Putin.
Le sanzioni e l’addio di Starbucks, Heineken, Apple, Nike o Ferrari non sono una punizione contro i russi, vittime indirette della guerra voluta dal loro Presidente. Incolpevoli dell’invasione, soprattutto i più poveri, i russi pagheranno però un prezzo altissimo con le sanzioni che a breve porteranno l’economia al collasso. Lo pagheremo anche noi, sicuramente, in questa nuova «economia dell’emergenza », ma è un prezzo nemmeno lontanamente paragonabile alla tragedia umanitaria in terra ucraina dove milioni di persone, oggi, non hanno acqua ed elettricità, cibo e medicine; dove le madri scappano con i figli in braccio e in pancia, sotto le bombe, sono ammassate nelle cantine o già morte come Tatyana a Irpin con i suoi Alisa e Miketa. Sono loro, i loro corpi feriti e le loro anime scheggiate le vittime prime e dirette – non dobbiamo mai dimenticarlo – di una guerra folle che stanno solo subendo.
Per questo ci aggrappiamo tutti e con tutta la speranza disponibile a ogni esile fiammella che potrebbe accendersi durante i colloqui fra le parti, siano in Bielorussia o Turchia. Ed è sempre con i volti sofferenti, impauriti e coraggiosi degli ucraini davanti agli occhi che proviamo almeno a coltivare un sogno. Lo facciamo con tutto il pudore e, in questo caso, sì, anche la sana follia necessari: possano riaprire tutti gli 847 Mc Donald’s in Russia. Significherebbe che già prima hanno ricominciato a vendere quegli hamburger globalizzati, così furbescamente uguali e con lo stesso sapore ovunque, a venderli in un giorno normale anche a Kiev. E soprattutto che a Kiev come a Mariupol le bambine e i bambini sono già tornati a scuola e i loro genitori a lavorare e non a fare, e subire, la guerra.
È un sogno piccolo, e magari un po’ storto, ma oggi sembra impossibile. A pensarci, vengono in mente i versi di Margherita Guidacci: «L’impossibile solo rende possibile la vita dell’uomo. Tu fai bene a inseguire il vento con un secchio. Da te, e da te soltanto, si lascerà catturare».