Partiamo dallo slogan: «Zan, Zendegi, Azadi» ovvero «Donne, vita, libertà». La versione persiana dell’antica rivendicazione del femminismo curdo risuona nelle piazze e nelle strade dell’Iran dalla morte della 22enne Mahsa Amini il 16 settembre scorso. Un grido così potente che il regime degli ayatollah ha cercato di schiacciare la protesta con il pugno di ferro. Senza riuscirci, almeno per ora. La «rivoluzione delle donne», l’hanno chiamata media e attivisti. Forse, però, sarebbe meglio definirla la "rivoluzione degli iraniani guidata dalle donne". Sono loro la punta avanzata della protesta. Non è un caso: con la fondazione della Repubblica islamica, nel 1979, i diritti femminili – in ambito civile, politico e sociale – sono stati compressi in modo drastico. E il malessere delle donne si inserisce in un malcontento che affonda nella recessione, acuita dal Covid e proseguita nel post-pandemia, e nella progressiva compressione degli spazi di libertà. Per tutti, seppure il fardello che grava sulle spalle femminili è più pesante.
Le iraniane, tuttavia, non sono solo il catalizzatore bensì il motore della ribellione. La ragione affonda le proprie radici nella storia di opposizione silenziosa messa in essere negli ultimi 43 anni mediante quello che il sociologo Asef Bayat ha definito «il potere della presenza». Un «femminismo della vita quotidiana», capace di disputare lo spazio pubblico ai fondamentalisti senza campagne deliberate bensì con l’ostinazione dell’azione minima, nonviolenta e ripetuta. Nel lavoro, nello sport, nell’educazione, nell’arte, nei media, le donne d’Iran hanno cercato di resistere, sfidare e negoziare margini di manovra per ridurre il livello di discriminazione. Di fronte a un sistema che cercava di relegarle nel privato, hanno deciso di uscire. Una sorta di prosecuzione al rallentatore della cosiddetta «rivolta inconclusa», espressione coniata dal regista Chapour Haghighat per descrivere la cruenta interruzione da parte delle forze khomeiniste del movimento sociale progressista che aveva deposto lo Scià. Le figlie e le nipoti di quell’esperienza – pur nate e cresciute nella ferrea disciplina della Repubblica islamica –, paradossalmente, sono state costrette a trovare una nuova strategia dal progressivo irrigidimento del sistema.
Nell’ultimo decennio, assediati dall’eterno nemico saudita, dalla crisi economica, dalla crescita delle istanze delle minoranze, gli ayatollah hanno archiviato gli esperimenti riformisti. L’elezione del "duro" Ebrahim Raisi, tre anni fa, ha portato la pressione al massimo livello. Nel mirino delle manifestanti, è finito il velo, nel suo contenuto politico più che religioso. Del resto, nella "Repubblica del chador", quest’ultimo è stato spesso emblema del conflitto. Proibito dai governi laici tra il 1936 e il 1979, Khomeini ne ha fatto il simbolo di opposizione all’Occidente. Le iraniane, ora, lo hanno trasformato nell’emblema della lotta di un popolo oppresso. Segnali in cui la Nobel Shirin Ebadi ha letto i prodromi di una «vera rivoluzione».
Nell’Afghanistan sotto il giogo dei taleban, è il diritto all’istruzione che vede sempre le donne, anzi le ragazzine – seppure con minor visibilità internazionale – in prima linea nell’opposizione al nuovo Emirato. Certo, nel caso di Teheran, si può ipotizzare che il momento dell’esplosione non sia del tutto casuale. E che molte potenze internazionali potrebbero essere tentate di alimentarla o sostenerla per interessi geopolitici più che per solidarietà. Che vi sia o no, l’eventuale input esterno si inserisce in uno scenario incandescente.Si tratta dell’inizio della fine del regime degli ayatollah?
I politologi insegnano che, affinché una protesta possa dare luogo a un cambio di governo, deve riuscire a coagulare le proprie rivendicazioni in un’agenda e a individuare una leadership. Al momento, la situazione è ancora nella fase magmatica della rivolta spontanea. Un’evoluzione “politica”, però, non è esclusa. In questo la comunità internazionale può avere un ruolo positivo. Non si tratta di “esportare la democrazia” o di “salvare le donne”, come disse Laura Bush nel 2001 riferendosi all’Afghanistan.
Proprio il fallimento di Kabul – tornata al punto di partenza dopo altri vent’anni di guerra – dimostra quanto imporre idee e istituzioni con la forza sia una pericolosa chimera. Tra le sanzioni o le proteste virtuali con il taglio di ciocche di capelli, ci sono, però, altre opzioni riassunte nelle parole diplomazia e negoziato. In un contesto sempre più interdipendente e globale, anche Teheran ha timore dell’isolamento, retorica a parte. C’è, infine, il ruolo dei media: di informare, con senso critico e completezza, al di là della facile emozione dell’istante. È questo il miglior servizio che si possa rendere alle iraniane. E per tutti coloro che lottano nel mondo per i propri diritti. Zan, Zendegi, Azadi.