La crisi della natalità dipende da noi. Se consideriamo la struttura demografica dell’Italia come un edificio, l’esposizione al rischio di crollo non è dovuta a un terremoto, ma al progressivo deterioramento di muri portanti per incuria e scarsa manutenzione. L’aumento della longevità agisce come un aumento dei piani al vertice, ma se la struttura portante viene lasciata indebolire non si possono considerare le crepe che si allargano (il sistema di welfare sempre più debole) e i pezzi che progressivamente si staccano (i giovani che se ne vanno) una fatalità, ma l’esito delle nostre inadempienze. Insomma, se non usciamo da questa crisi, che ogni anno si aggrava un po’ di più come mostrano gli ultimi dati Istat, significa che non ci interessa o non ne siamo capaci. Finora abbiamo attraversato in sequenza entrambe tali due fasi. L’inizio della crisi potremmo situarlo nel 1984, quando il numero medio di figli per donna si è posizionato sotto 1,5 (molto sotto la soglia di 2 che garantisce l’equilibrio generazionale). Quando si scende e si rimane a lungo su valori così bassi non si perde solo la capacità endogena di crescita della popolazione ma si va incontro a squilibri demografici nel rapporto tra generazioni anziani e giovani che diventano progressivamente insostenibili. Tutto questo è avvenuto con sostanziale indifferenza nel contesto del dibattito pubblico e sul versante della politica. Un esempio di Paese che invece ha preso sul serio la questione è la Francia.
La Germania ha invece seguito un percorso analogo all’Italia, ma è poi passata dall’indifferenza alla preoccupazione rendendosi conto che bisognava intervenire anche sulle cause, non solo rendere meno gravi le implicazioni degli squilibri. Negli anni precedenti la Grande recessione ha avviato un insieme integrato di politiche familiari, sia in termini economici che di servizi per la conciliazione tra vita e lavoro, che hanno risollevato la fecondità portandola sopra la media europea, quantomeno fino agli anni più recenti. Tale azione, in combinazione con politiche migratori che hanno rafforzato la popolazione lavorativa e nell’età riproduttiva, ha portato negli ultimi quindici anni al più solido aumento delle nascite in Europa.
Nel periodo della Grande recessione il numero di nati in Germania non è diminuito, rimanendo attorno a 680mila, per poi salire a 790 mila nel 2016 e rimanendo su tale livello fino all’impatto della pandemia di Covid. In Italia, invece, si è scesi da oltre 570mila del 2008 a meno di 380mila del 2023. Grazie a queste dinamiche la fascia francese di età sotto i 5 anni ha mantenuto una consistenza analoga a quella in età 15-19 (mentre nel nostro paese la prima classe si trova ora con circa 800 mila persone in meno rispetto alla seconda). È vero che l’Italia ha cominciato a guardare con più interesse e preoccupazione alla questione demografica con l’entrata nel nuovo secolo, ma lo ha fatto con impegno molto più modesto rispetto a paesi che si trovavano in condizioni simili, con conseguente meno efficacia delle politiche. Anche Francia e Germania sono preoccupate per una flessione rilevante della natalità negli anni più recenti, ma grazie alle politiche più solide possono gestirne meglio le implicazioni e avere maggiori margini per rafforzare, riorientare e rilanciare le azioni di policy. L’Italia invece sta entrando in una terza fase: dopo l’indifferenza, seguita da una fase di scarsa convinzione e capacità, si assiste ora da varie parti al farsi largo di un senso di impotenza che porta rassegnazione fatalistica. È il percorso perfetto per la profezia di un crollo demografico che si autoadempie. Il dichiarare che l’inversione di tendenza sulle nascite non si può più ottenere giustifica il suggerimento di risparmiare su tale fronte. Ma con quale conseguenza? Quella di far aumentare ancor più il costo di avere un figlio in Italia, portando i giovani (quelli con meno disponibilità economica) a rinunciare o a decidere di contribuire al rialzo della natalità in Germania o in altri paesi. Chi i figli invece proverà ad averli in Italia si troverà ancor più socialmente vulnerabile, con conseguente maggior povertà infantile ed educativa come mostrano molti studi. Rinunciare a politiche di sostegno alla natalità non lascia le nascite al livello in cui sono ma le porta a crollare ancora di più. Tutti i paesi che sono riusciti a mantenere una natalità non troppo bassa o a farla risalire prevedono una combinazione di sostegno economico e di servizi di conciliazione, oltre che un rafforzamento dei percorsi di autonomia dei giovani.