Sta passando sotto silenzio – anche per il 'blocco' di non poche ricerche derivante dal tragico fenomeno epidemico che sta aggredendo il nostro Paese – il centenario del 1921 che, apparentemente, è solo parente povero del fatidico 1922, dell’anno, cioè, della cosiddetta 'marcia su Roma' (che, come noto, marcia non fu...).
Ma non è fuori luogo – non solo per gli storici di professione, bensì per chiunque abbia a cuore le sorti della democrazia nel nostro Paese – riandare a quel 1921 che per molti aspetti può essere considerato non solo l’anticamera ma il 'brodo di cultura' del successivo avvento al potere del fascismo. Il 1921 è stato l’anno delle radicali incomprensioni, da parte di pressoché tutti i componenti la classe dirigente di allora, della subdola pericolosità del fascismo.
Da ogni parte ci si illuse che si trattasse di un fenomeno passeggero, che sarebbe stato ben presto spazzato via e si sottovalutò fortemente il diffuso senso di disagio, e talvolta la vera e propria 'fuga dalla politica' di vaste componenti di un Paese prostrato da una lunga guerra, vittoriosa, certo, sul piano militare ma prosciugatrice delle sue energie di base. Il 1921 è stato l’anno dei «veti incrociati»; il 'no' dei socialisti ai liberali, dei popolari nei confronti degli uni quanto degli altri, sullo sfondo delle incertezze di una Monarchia incapace di rappresentare una guida per il Paese e in contesto di vita sociale caratterizzata da diffuse inquietudini, da continui scioperi, da persistenti aggressioni, dall’affermarsi di fazioni l’una contro l’altra armate...
È impossibile paragonare il 1921 con l’attuale situazione del Paese Italia? Vorremmo sperarlo, con le 'ragioni del cuore', ma non così è per le 'ragioni della ragione'. Queste ultime ci dicono che l’esasperata conflittualità delle forze politiche – all’esterno fra loro, all’interno fra le varie correnti – non riesce a essere temperata nemmeno dall’obbligo di sostenere uno stesso governo: ancora oggi nulla è più lontano da un sereno confronto fra le opinioni, da un misurato ragionare sulle cose da fare e sui problemi da affrontare, da una valutazione obiettiva delle questioni sul tappeto, indipendentemente dagli interessi elettorali di ciascuna delle parti.
La forte frammentazione delle forze in campo – stando almeno alle indagini sondaggistiche, pur con tutti i limiti che le caratterizzano – è davanti agli occhi di tutti. Al pacato dialogo sta succedendo, anche all’interno dei partiti, grandi o piccoli che siano, una sorta di rissa continua. Un solo esempio: le condizioni del Pd sottolineate dalle dimissioni di Nicola Zingaretti dalla carica di segretario appaiono, alla luce delle riflessioni rapidamente svolte, veramente emblematiche: le risse interne hanno raggiunto un livello che vorrebbe essere di 'non ritorno', ma che quasi certamente non sarà tale, nonostante il piglio con cui il nuovo segretario Enrico Letta ha preso il timone.
È arbitrario evocare, su questo sfondo, lo spettro del 1921? È ben vero che milita a favore dell’ottimismo una Carta costituzionale ben delineata e ferma, a differenza di uno Statuto, quello vigente del 1921, arcaico e superato; non vi è dubbio che la coscienza civile degli italiani è, nonostante tutto, più matura che non un secolo addietro; e non si vedono all’orizzonte, per fortuna, 'uomini forti' della statura di un Lenin, di un Mussolini, di un Hitler. E tuttavia la storia del Novecento rivela quanto siano stati numerosi – e talora di assai modesto livello, come un Franco o un Pètain – i leader politici che hanno goduto di vasta popolarità e gestito, talvolta assai a lungo, il potere. Non ci si illuda, dunque, che si possa continuare all’infinito in una 'lotta continua' tra partiti diventati spesso un’accozzaglia di 'fazioni' fra loro contrapposte.
La storia del 1921 sta lì ad ammonire che la democrazia è per la sua stessa natura sempre a rischio. La lezione del passato – pur in un contesto profondamente diverso – non può essere dimenticata da chi dovrebbe battere la via dell’interesse del Paese e non quello personale e del proprio partito. Per questo, e non solo per i fondi del grande piano europeo di ripresa dopo la pandemia, il governo Draghi è un’occasione seria.