Nicaragua e Venezuela, il dolore e la speranza di due popoli crocifissi
venerdì 19 aprile 2019

«Un popolo crocifisso risorge sempre». Con queste parole, pronunciate domenica dal vescovo Silvio Báez nella chiesa degli Scolopi di Managua, il Nicaragua ha cominciato la sua Settimana Santa. Un momento cruciale, non solo per i cattolici, che rappresentano la maggior parte della popolazione. Oggi i fedeli del Paese e del mondo fanno memoria viva della salita al Calvario di Gesù. E i nicaraguensi ricordano anche il principio, un anno fa, del loro calvario nazionale. In realtà, i primi, sparuti cortei di pensionati a León contro la riforma previdenziale sono avvenuti il 18 aprile.

È il giorno successivo, però, con l’estendersi della protesta a Managua, che è cominciata l’Insurrezione di aprile. Che ha avuto come protagonisti non le forze politiche tradizionali – ampiamente colluse con il potere – , bensì i «nipoti della Rivoluzione», per conservare la bella metafora dello scrittore Sergio Ramírez. Le generazioni, cioè, nate e cresciute dopo l’abbattimento della pluridecennale dittatura del clan Somoza da parte del sandinismo.

Un movimento nazionalista, libertario e socialisteggiante che, quarant’anni fa, fece soffiare un vento di speranza nell’America Latina ostaggio dei regimi militari. È questo l’autentico lascito del sandinismo ai nicaraguensi e i latinoamericani. Nonché il carburante della lotta contro l’attuale governo, nepotista e autoritario, populista in teoria e neoliberale nei fatti, al potere da 12 anni. Poco importa che la sua guida – il presidente Daniel Ortega – sia stato uno dei comandanti anti-somozisti nonché presidente della giunta insurrezionale. I «nipoti della Rivoluzione» non sono disposti ad accontentarsi della sua caricatura.

Per questo, continuano a battersi, nonostante la repressione, messa in atto – come hanno confermato gli esperti indipendenti e le organizzazioni internazionali incaricate – da Ortega. Almeno 325 morti, quasi 800 detenuti politici e 60mila persone – perlopiù giovani e giovanissimi – fuggiti all’estero per non diventarlo. All’ultimo corteo, nella notte tra mercoledì e giovedì, ci sono stati 67 arresti. Tale ostinazione li accomuna ai giovani di un altro «popolo crocifisso» latinoamericano: il Venezuela, martirizzato da un’emergenza umanitaria di enormi proporzioni.

Sono soprattutto le nuove generazioni, incluse quelle dei quartieri popolari – in primis il leader dell’opposizione, Juan Guaidó – a scendere in piazza per reclamare il futuro negato loro da Nicolás Maduro, ormai incapace di governare ma deciso a restare in piedi, ad ogni costo. Un triplice filo rosso, del resto, unisce Caracas a Managua. Ai tempi d’oro del chavismo, quando il petrolio sfiorava i 120 dollari al barile, i generosi aiuti venezuelani – gestiti senza alcun controllo – hanno consentito a Ortega di mantenere la pace sociale. La crisi, ora, è un effetto collaterale delle pesanti sforbiciate alla cooperazione a cui la crisi ha costretto Maduro.

Non meno importante il minimo comune denominatore rappresentato dall’ondivaga politica estera – in particolare latinoamericana – di Donald Trump. In mancanza di un partner-ponte – data l’ostinazione nell’archiviare il disgelo di Obama con Cuba –, la Casa Bianca continua a giocare, forse senza troppa convinzione, la carta delle sanzioni. L’ultimo a entrare nella lista nera è stato Laureano Ortega, rampollo del presidente nicaraguense. Che fare allora per uscire dall’impasse? L’intervento armato non sembra una soluzione né efficace né auspicabile. Ne sono consapevoli i popoli del Nicaragua come del Venezuela: non a caso entrambi hanno scelto la protesta nonviolenta. Un cammino stretto e difficile. In cui, però, sono sostenuti e accompagnati dalla Chiesa.

Impegnata in Nicaragua a tenere aperto uno spiraglio di dialogo, come dimostra la presenza del nunzio, Waldemar Stanislaw Sommertag, al tavolo delle trattative. In prima linea in Venezuela nella denuncia dei drammi quotidiani della popolazione e nell’assistenza umanitaria. Opzioni, nei due casi, sociali, non politiche: al centro delle preoccupazioni dei pastori c’è la difesa della vita e della dignità dei fedeli da sistemi disumanizzanti. Con la certezza che un «popolo crocifisso risorge sempre». Poiché – scriveva il vate nicaraguense Rubén Darío – «nel morire troverò la luce di un nuovo giorno. E allora ascolterò il mio: “Alzati e cammina”».

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