Gentile direttore,
ho letto in questi giorni che il presidente dell’Ucraina Zelensky dovrebbe essere tra gli ospiti del festival di Sanremo. La notizia mi ha suscitato incredulità e profondo sconcerto. Stiamo assistendo da quasi un anno al consumarsi di una guerra cruenta e dolorosa tra Russia e Ucraina, che ha seminato migliaia e migliaia di vittime e continuerà a farlo per chissà quanto tempo ancora, con il rischio di trasformarsi in un conflitto mondiale. Ebbene, in questo gravissimo contesto si decide di invitare a parlare in una trasmissione di intrattenimento uno dei due protagonisti del conflitto, facendo prevalere ancora una volta il criterio della spettacolarizzazione anche rispetto a un evento che richiederebbe ben diverso scenario e articolata riflessione! Ritengo che si tratti di una decisione molto grave e mi auguro vivamente che venga sospesa dai vertici della Rai.
Maria Laura Fraternali, Urbino
Caro direttore,
mi pare che l'eventuale partecipazione del presidente ucraino Zelensky al festival di Sanremo sia sbagliata e controproducente. Se l'organizzazione del Festival volesse operare per la pace potrebbe proporre a un grande cantante italiano, fuori concorso, di cantare una canzone in russo che valorizzi, appunto, il dono della pace e stigmatizzi la disumanità della guerra. La Russia ebbe un grande cantautore, Bulat Okudzava che ne scrisse alcune, tra cui suggerirei “Insolenza” o “Colloquio prima della battaglia”. Oppure qualche bella canzone di Juri Ševchuk, grande artista vivente, magari quella sul caso del sottomarino Kursk... Insomma, credo che bisognerebbe ricordare che la gente, non intossicata da astratti nazionalismi, preferisce la pace, sotto tutte le bandiere.
Roberto Bera, Torino
Caro direttore,
il premier ucraino Zelensky dopo il festival di Cannes e i Golden Globe, sarà a quanto apre anche al festival di Sanremo. Si potrebbe dire che questa consuetudine con i palcoscenici sia una specie di “format” per i trascorsi del presidente , attore e produttore, che ha cooptato buona parte dell’organigramma della sua casa di produzione nel governo da lui guidato. Del resto, in tempi multimediali l’utilizzo della comunicazione è fondamentale. In una guerra ancora di più. A Cannes Zelensky citò di “Apocalypse Now” la frase: «Mi piace l'odore del napalm al mattino», pronunciata dall’esaltato colonnello Kilgore (Robert Duvall). Forse sarebbe stata più opportuna l’ultima parola del film, pronunciata dal colonnello Kurtz (Marlon Brando): «L’orrore», parola che rimarrà per sempre scolpita nelle orecchie del suo carnefice, il capitano Willard (Martin Sheen) incaricato di porre fine all’esistenza del militare uscito di senno e divenuto semi-dio di una tribù indigena. L’orrore: perché di questo parlava Francis Ford Coppola nel suo capolavoro. L’orrore della guerra e di ciò che fa agli uomini: uccidendoli o facendoli diventare carnefici. Chissà cosa dirà Zelensky a Sanremo. Mi sono venuti in mente i Jalisse e la loro “Fiumi di parole”. Quanti “fiumi di parole” stanno scorrendo in parallelo al sangue in questa maledetta guerra? Quanti “fiumi di parole” identiche scorrono nascendo da una sorgente d’odio? Questi “fiumi di parole” necessitano di una riva (di tregua) su cui appoggiarsi per sfociare in un mare (di pace). Le parole di aiuto di Zelensky continuano a essere importanti, ma altrettanto se non di più sono le risposte dei Paesi alleati. Molto più articolate di un invio di armi che sembra frutto di un Vangelo rovesciato laddove Gesù dice (Matteo 6,1-6.16-18): «Non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra». Nel Vangelo era l’elemosina da non sbandierare e da praticare nell’umiltà, qui c’è un invio di armi in minima parte ostentato e in gran parte segreto, ma comunque dall’effetto deflagrante. È molto più impegnativo e faticoso prodursi in scenari di pace che coinvolgano i Paesi del G7 e i Brics, ma questa è la sfida del nuovo millennio. Non il conflitto ma il dialogo. Anche col peggior nemico. Perché poi in una guerra fra una democrazia rappresentativa e un’autocrazia a sfidarsi e a rimetterci la vita, la casa, gli affetti, non sono mai i rappresentanti dei popoli, gli eletti ma sempre gli elettori, in genere gli “ultimi”, quelli più deboli e svantaggiati. Gli unici “fiumi di parole” che vorrei sono quelli della diplomazia, ma subito, senza più perdere tempo.
Daniele Piccinini, Roma
Anch’io preferirei che i Capi di Stato e di Governo si adoperassero, coi loro diplomatici, per porre fine alla guerra. E dal sanremese palco dell’Ariston anch’io vorrei poter ascoltare quest’anno voci di pace. Di quelli e quelle che hanno l’ardire di obiettare alla disumanità dello scontro bellico. Meglio se ucraini e russi insieme, come nel terzetto del premio Nobel 2022 che solo gli intossicati dall’odio e i signori del partito delle armi non hanno capito e si sono rifiutati di applaudire. Certo, Sanremo non è Oslo, ma alla sua speciale maniera (in italiano e in musica) parla al mondo intero, e non sarebbe affatto male ricordare anche dalla Città dei Fiori e del Festival che è lungo la via dove s’intrecciano volontà e voci di “nemici” che finirà il massacro e si uscirà dall’incubo. E comunque, sì, mi piacerebbe molto ascoltare almeno una delle (troppo poche) ballate tradotte in italiano del grande Bulat Okudzava, premio Tenco 1985. Magari insieme a una delle canzoni dell’altrettanto grande e coraggioso Juri Ševchuk, che nell’ottobre scorso avrebbe dovuto essere nella città ligure per ritirare a sua volta (assieme al gruppo rock DDT) il riconoscimento dedicato aTenco, e non ha potuto a causa della guerra. Ma ha ugualmente e pubblicamente espresso dolore e solidarietà per tutte le vittime, ucraine e russe, denunciando senza paura la censura e le persecuzioni a cui viene sottoposto chi parla di pace e osa schierarsi nel suo Paese (e non solo lì) contro la guerra. Sarei contento e grato se queste canzoni fossero proposte, e mi piacerebbe che accettasse di interpretarle un’altra artista generosa e coraggiosa: Fiorella Mannoia. Sì, sarebbe importante ascoltare le canzoni di Okudzava e di Ševchuk proprio dal palco di Sanremo e nel duro febbraio che s’annuncia, prologo non di primavera ma di una nuova stagione morta e di morte, che minaccia di coronare di sangue e spine il primo e terribile anno della seconda fase della guerra russo-ucraina. Sarebbe un segno di speranza e di contraddizione nel pieno dell’evento che monopolizzerà ascolti televisivi, radiofonici e digitali italiani e s’irradierà in un bel pezzo di mondo. Perché farebbe risuonare parole, idee, sentimenti e gesti di umanità pensati, cantati e incisi nella lingua “occupata” dal presidente russo Putin, colui che porta la responsabilità più tremenda nella tragedia che si consuma sulla pelle di centinaia di migliaia di soldati sbattuti al fronte, delle loro famiglie e di tanti e tanti civili inermi. E per favore, nessuno si sogni di dirci che dovremo ascoltare pure al Festival solo e soltanto il presidente ucraino Zelensky e non anche quei disarmati cantori russi della pace e della giustizia “perché Sanremo è Sanremo” e non è il “Tenco”... Parli lui, e si dia voce agli altri.
Non so, cara amica e cari amici, se i vertici della Rai avranno la forza di compiere una scelta così eloquente e diversa, ma lo spero. Così come spero con coloro che, nonostante tutto, continuano a lavorare per fermare la carneficina e le distruzioni.