Troppo facile. Troppo facile, per il Movimento 5 Stelle, parlare di «una goffa ripicca » riguardo alla richiesta di dimissioni della Lega per la sindaca di Roma Virginia Raggi. Sì perché di là, sul Carroccio, c’è il sottosegretario Armando Siri, indagato per corruzione e sospettato addirittura di intese con un imprenditore in odore di mafia. E dimentichi di essere al governo del Paese insieme, complici le elezioni europee alle porte, i due partiti di maggioranza si sparano addosso cannonate chiedendo di lasciare la poltrona ai rispettivi rappresentanti in difficoltà.
Ma come? – dicono al M5s – le due situazioni non sono nemmeno paragonabili perché Raggi non è nemmeno indagata. Come se fosse una competizione a chi ha meno grane giudiziarie, ai grillini non viene in mente di commissionare subito un’analisi costi-benefici per calcolare quale impatto politico possono avere le seguenti frasi sulle labbra del sindaco di una grande Capitale europea: «Io ho la città praticamente fuori controllo» e «se i romani si affacciano vedono la m... in città, in alcune zone purtroppo è così, in altre zone è pulito e tenuto bene...».
Ammesso e non concesso che ci siano zone di Roma pulite e tenute bene, il peso di un’ammissione del genere sembra enorme, anche senza scomodare commissioni di esperti. Perché conferma quanto finora lamentato da migliaia di romani, di pendolari e di turisti circa lo stato di degrado e di 'non governo' dell’Urbe. In pubblico, la sindaca si è finora sempre difesa adducendo complotti e critiche malevole nei confronti della sua amministrazione oppure, di fronte a guasti innegabili, attribuendo le colpe ai suoi predecessori e alla 'vecchia politica'. Salvo annunciare come grandi rivoluzioni l’inaugurazione di qualche chilometro di pista ciclabile o la riasfaltatura di una strada.
Ora scopriamo, da una conversazione privata registrata dal presidente di una municipalizzata recalcitrante a eseguire i suoi ordini, che Raggi è pienamente consapevole dello stato pietoso in cui Roma è ridotta. Di più: per dire che questa ennesima tegola per lei è cosa da niente, scrive su Facebook che in quell’audio rubato ha detto «quello che direbbe qualsiasi altro cittadino di Roma». Con la non trascurabile differenza che lei non è una cittadina qualsiasi e che in politica, 'vecchia' o 'nuova' che sia, la responsabilità di amministrare il Comune, tenere pulite e percorribili le strade e assicurare un trasporto pubblico almeno decente spetta al sindaco. Cioè, in questo caso, proprio a lei.
Così, nel giorno memorabile in cui il romano medio scopre di non avere le allucinazioni, l’italiano medio deve assistere al poco edificante spettacolo del fuoco incrociato per questioni giudiziarie tra i due partiti di governo, i cui leader sono - è bene ricordarlo - i vicepresidenti del Consiglio. I quali non vanno d’accordo su quasi niente, tranne sul fatto che l’esecutivo debba andare avanti (almeno fino alle Europee, cercando nel frattempo di sottrarsi a vicenda più voti possibili), e si scambiano fendenti micidiali sulle inchieste. In realtà, il giustizialismo dovrebbe accomunarli perché è nel Dna di entrambe le forze politiche.
Dei 5stelle si sa, perché lo rivendicano con orgoglio sotto l’inesatta denominazione di «onestà» e talvolta non fanno sbollire il loro furore nemmeno davanti a sentenze di assoluzione, per non parlare della sincera diffidenza che nutrono verso la presunzione di non colpevolezza sancita dalla Costituzione; della Lega si potrebbe, a titolo esemplificativo, ricordare il famoso cappio sventolato da Luca Leoni Orsenigo nell’aula di Montecitorio nel 1993, in piena Tangentopoli, prima che il lungo sodalizio con Forza Italia ne ammorbidisse le posizioni. Senonché entrambe le fazioni, incredibilmente opposte e alleate allo stesso tempo, riservano il rigore e l’inflessibilità per lo più agli esponenti di partiti diversi dal proprio. Gioco per un po’ anche redditizio, ma che alla lunga - la stessa Lega ne sa qualcosa: ricordate il caso Bossi? - stanca, e stanga.