La proposta di un reddito di emergenza per evitare che i braccianti siano costretti a lavorare, rischiando il contagio
L’articolo è un’anticipazione di un brano tratto da «Un Continente in rivolta. L’America Latina tra protesta e speranza» di Lucia Capuzzi (pagine 176, euro 14,00), pubblicato da Vita e Pensiero nella collana “Pagine prime” realizzata in collaborazione con Avvenire.
Latinoamérica en llamas , America Latina in fiamme. Era il 2010 quando il poeta messicano Francisco Azuela, nipote di Mario, grande narratore della Rivoluzione del 1910, diede questo titolo alla sua nuova raccolta. Un omaggio al turbolento Novecento regionale e alle gesta dei suoi eroi in basco e mimetica, pensarono in tanti. La critica parlò di “provocazione letteraria”. «La ferita cresce di fronte allo specchio della sera, non posso celebrare sessant’anni di vita nell’odore di morte, rifugiato nel silenzio di questo giorno doloroso. Piango le speranze rotte, l’animale apre le fauci dilaniando cuori e canti alla vita con il suo passo lento e sinuoso», scriveva Azuela proprio nel momento di massima effervescenza latinoamericana. Il Continente era nel pieno di un ciclo di exploit economico, stabilità politica, entusiasmo per il futuro. L’apice del «decennio latinoamericano», lo consacrò The Economist . Eppure, ancora una volta, la letteratura si era dimostrata capace di cogliere l’autentico sentire di quello sconfinato spazio compreso tra il Rio Bravo e la Terra del Fuoco. In cui, dietro la patina luccicante della fiesta, covava il fuoco di un crescente malcontento. Nove anni dopo l’incendio è scoppiato, bruciando, nell’arco di dodici mesi, nove su venti Paesi dell’area, oltre all’isola di Portorico, latina per geografia e cultura, eppure Stato associato di Washington. Un record nel pur movimentato scenario globale.
L'impatto del Covid – di cui il Continente è diventato l’epicentro da maggio 2020, come dichiarato più volte dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) – rischia di ampliare le dimensioni del rogo.
In aumento miseria e disuguaglianza. Nel corso del 2020 si prevedono 45 milioni di nuovi poveri, il 37% della popolazione.
Dal Brasile al Nicaragua, l’emergenza sanitaria è metafora e acceleratore della crisi economica, sociale e politica in atto. [...] Il boom di inizio secolo non ha emancipato l’America Latina dal miraggio dell’estrattivismo. Male antico del Continente: l’accompagna fin dall’epoca delle colonie. Da allora, la politica ha subìto un lungo processo di evoluzione. Passando dall’appartenenza agli imperi iberici all’indipendenza, dai regimi oligarchici e liberali ai primi esperimenti di sistemi di massa, dal mito della Rivoluzione alle cruente dittature militari novecentesche, fino all’affermazione dei princìpi di alternanza e rappresentatività d’inizio anni Duemila. L’economia regionale, al contrario, è rimasta saldamente ancorata all’ordinamento coloniale che vedeva nel Nuovo mondo un fornitore di materie prime a basso costo per il mercato estero. Prima quello delle madre-patrie, poi quelli delle potenze amiche. L’America Latina non è riuscita a mettere in discussione il modello estrattivista, basato su un’alta dipendenza dalle risorse naturali destinate all’esportazione, con una bassissima fase di trasformazione locale.
Oltre che predatorio, si tratta di un assetto produttivo inefficiente. Poiché dipende dalle fluttuazioni – continue e imprevedibili – dei prezzi internazionali delle commodities. Sono stati gli altissimi valori di soia, mais, minerali, carne a far crescere i Pil regionali a un ritmo intorno al 4% tra il 2003 e il 2013. Come il loro crollo, a partire dal 2014, ha determinato la successiva frenata. Nel frattempo, i governi in carica al tempo della fiesta non hanno saputo cogliere la congiuntura favorevole per sciogliere tre vecchi e ingarbugliatissimi nodi: la diseguaglianza feroce, l’inefficienza dei servizi pubblici, la carenza di un’infrastruttura industriale in grado di generare impieghi formali. Ora farlo diventa ben più complicato, dato il ribasso delle materie prime e la frenata della crescita che ora il Covid sta trasformando in tracollo. Secondo i dati della Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal), il tasso di crescita regionale medio del 2019 è stato intorno allo 0,1%. E le ultime previsioni per il 2020 sono catastrofiche. Il Pil cadrà di 9,1 punti percentuali e il reddito pro-capite del 9,9%, riportando l’America Latina indietro di dieci anni.
Infine – elemento affatto secondario – poiché è rivolto al mercato internazionale, il modello estrattivista non ha interesse ad ampliare il consumo interno o a migliorare la produzione. Da qui l’insofferenza cronica dei governanti verso gli aumenti salariali, il Welfare e le po- litiche redistributive. A differenza dell’Europa del Secondo dopoguerra, questi elementi non sono considerati necessari al sistema. È questa la radice forse più resistente del grande male latinoamericano: la diseguaglianza. L’America Latina è, tuttora, il Continente più iniquo del pianeta, pur non essendo il più povero. Sebbene il divario si sia attenuato di otto punti dal 2002, il Covid rischia di azzerare gli sforzi – per quanto non risolutivi – fatti nell’ultimo ventennio. L’ultimo rapporto della Cepal (del luglio 2020) prevede che altri 45 milioni di persone finiranno in miseria nel corso del 2020, portando il numero di poveri a quota 230,9 milioni. In pratica, il 37,3% dei latinoamericani. Il 15,5% di questi vivrà in condizioni di disagio estremo. Insieme alla povertà – in aumento di almeno sette punti in Argentina, Brasile, Ecuador, Messico e Perù – crescerà la disuguaglianza. L’indice di Gini, la principale misura della disparità di reddito e ricchezza, si incrementerà di una quota tra l’1 e l’8% a seconda della nazione.
Da tempo, la segretaria esecutiva della Cepal, Alicia Bárcena, esorta i governi a farsi carico del problema, ripensando il paradigma economico. L’irruzione della pandemia ha trasformato l’appello in un grido, portando alla ribalta il dramma dimenticato dei lavoratori informali. Oltre la metà della manodopera latinoamericana, esclusa dal circuito economico, è costretta a inventarsi un impiego – come lustrascarpe, ambulante, domestico, bracciante a cottimo – che gli consente a malapena di sopravvivere alla giornata, senza garanzie in caso di ma-lattia, infortunio, vecchiaia o sospensione dell’attività per ragioni sanitarie. Impossibile, dunque, restare a casa nonostante le misure di lockdown, più o meno rigide, disposte dai differenti governi. Ciò spiega il ritmo vertiginoso di diffusione del contagio. Per risolvere il problema, la Cepal ha proposto di garantire loro un reddito di emergenza da 73 dollari al mese, il minimo per coprire le spese di alimentazione. La misura, pensata almeno per un semestre, potrebbe essere agevolmente finanziata facendo ricorso a riforme tributarie in senso progressivo. La Cepal da tempo considera questa la via maestra per combattere le diseguaglianze.