Nell’inaugurare a Castel Capuano la nuova sede della Scuola superiore della magistratura il ministro Nordio ha pronunciato parole importanti e, speriamo, impegnative. Ha anzitutto voluto precisare come «presunzione di innocenza e certezza della pena» segnino «la duplice, convergente direzione» verso cui «intendono muoversi le riforme in cantiere, continuando a lavorare per superare una visione carcerocentrica della pena». Affermazione particolarmente apprezzabile perché serve a chiarire che, almeno secondo il Ministro, “certezza della pena” – locuzione che nell’ecolalia di una certa politica sta spesso per “sbattere in galera e gettar via le chiavi” – non deve significare “certezza del carcere”.
Giustamente, osserva il Ministro, «la Costituzione parla di pena, non di carcere. E la pena talora può essere più efficace se espiata – per alcuni reati – attraverso misure e percorsi adatti ai profili, anche molto diversi, dei detenuti e a favorirne il reinserimento nella società dei liberi». Considerazione tanto più inoppugnabile, se si considera che la Costituzione per la verità parla di “pene che debbono tendere alla rieducazione del condanna-to”, a riprova che il legislatore costituente già quasi ottanta anni fa immaginava un arsenale sanzionatorio molto variegato, in grado di adattarsi al profilo e al percorso del condannato, anche al fine di cercarne il recupero sociale.
Eppure, nonostante l’autorevole bussola costituzionale che indica con chiarezza limiti e finalità della risposta dello Stato al delitto, esattamente dieci anni fa abbiamo dovuto subire l’ustionante condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani c. Italia), per trattamento inumano e degradante delle persone detenute e ancora oggi abbiamo penitenziari per larghissima parte somiglianti a stabulari di Stato, che registrano un raccapricciante stillicidio di suicidi. Molteplici fattori hanno concorso a questo sconfortante bilancio, ma la causa delle cause risiede nella diffusa convinzione che il carcere sia l’unica risposta alle paure del nostro tempo e nella corrispondente tendenza politica – elettoralmente molto redditizia – ad affrontare ogni reale o supposto motivo di insicurezza sociale ricorrendo allo strumento meno impegnativo e più inefficace: aumentare le fattispecie di reato ed elevare l’entità delle pene, diminuendo nel contempo le possibilità di graduale reintegrazione del condannato nel consorzio civile.
Una perdurante politica penale, sinora non certo ripudiata da questo Governo, di inequivocabile segno “carcerocentrico”, che fatalmente determina un crescente sovraffollamento penitenziario e una sostanziale impraticabilità della funzione risocializzativa della pena. Una politica che favorisce e sfrutta la grande mistificazione secondo cui promuovere il graduale reinserimento sociale del condannato significherebbe compromettere la sicurezza collettiva. Studi statistici dimostrano, al contrario, che il condannato cui è stato offerto un progetto individualizzato di meritato, progressivo ritorno in società ha una tendenza nettamente inferiore alla recidiva rispetto a chi sconta l’intera pena in carcere, e che dal carcere – a meno di non voler punire tutti con l’ergastolo – prima o poi comunque uscirà. Dall’esperienza degli Stati generali dell’esecuzione penale in poi giacciono in via Arenula compiuti progetti di riforma che vanno nella direzione indicata dal Ministro. Le sue dichiarazioni lasciano sperare che abbia il coraggio di avvalersene, sebbene siano frutto di maggioranze diverse (alle quali tale coraggio è mancato); o quantomeno confidare che, questa volta, la divaricazione tra le parole del Ministro e i fatti del Governo sia sensibilmente inferiore ai centottanta gradi.