L’invasione russa dell’Ucraina ha riallineato il mondo in blocchi contrapposti, da una parte l’Occidente con i suoi alleati, dall’altra la superpotenza di Mosca, dall’altra la Cina, il terzo grande player. Ma la guerra ha soprattutto generato una sorta di buco nero, una buia stella divoratrice che ha inghiottito l’attenzione mondiale fino a gettare in penombra le tante altre crisi di cui il mondo abbonda, alcune delle quali giacciono nel dimenticatoio mediatico. Lo Yemen, il Sudan in piena guerra civile, l’Iran, Taiwan, la grande polveriera mediorientale con il ritorno in auge del siriano Bashar al-Assad e l’instabilità politica di Israele coinvolto in una sanguinosa intifada fra Hamas, la Jihad e l’intolleranza ricattatoria dell’estremismo dei coloni, l’incrinarsi del sogno ottomano di Recep Tayyp Erdogan all'indomani della mancata vittoria elettorale, la Wagner che in Africa ha messo a punto una versione neocolonialista del land grabbing (la corsa forsennata ad accaparrarsi lotti territorio sfruttabile per coltivazione e risorse minerarie un tempo appannaggio del solo soft power cinese), il conflitto in Etiopia nella regione del Tigray, le insurrezioni islamiste in Burkina Faso, Mali e Niger con il crescere impetuoso dell’influenza jihadista, la Libia che non riesce a darsi un’elezione democratica e oscilla fra l’evanescente governo di Tripoli, i manutengoli dei mercenari russi e la satrapia di Khalifa Haftar; e poi Haiti, terra senza legge e di immensi disumani arbitrii, il Myanmar, l’Afghanistan, il Pakistan. I centri studi e gli osservatori internazionali concordano: le aree di crisi nel mondo sono una settantina, quelle di guerra cinquantanove, delle quali Avvenire nell’ultimo anno e mezzo ha dato ampio resoconto.
Conflitti a intensità variabile, dalla violenza estrema del sanguinoso scontro fra Mosca e Kiev a quella di difficile classificazione come in Nicaragua, in Somalia, in Venezuela. Eppure basterebbe dar credito a uno sguardo limpido e privo di pregiudizio come quello del Papa per porci le sue stesse domande: «Quando impareremo che le questioni sociali, economiche e di sicurezza sono tutte collegate? Quando impareremo dalla Storia che le vie della violenza, dell'oppressione e dell'ambizione sfrenata di conquistare terre non giovano al bene comune? Finché non arriveremo a questa consapevolezza, continueremo a vivere quella che ho definito una terza guerra mondiale combattuta a pezzi».
Una guerra mondiale all’interno della quale si staglia oggi in tutta la sua accecante evidenza il tramonto della globalizzazione come promessa di un ciclo di crescita ed espansione senza fine che, al contrario, ha prodotto una crisi sistemica dell’ambiente e un aumento delle diseguaglianze fra le nazioni e fra i loro popoli. Il fallimento di questo modello si accompagna a un altro fallimento: già una decina di anni fa nel suo lungimirante World Order (Ordine Mondiale) Henry Kissinger riconosceva che la pace di Westfalia del 1648 che aveva posto fine alla Guerra dei Trent’anni era stato il modello delle relazioni fra i popoli che meglio ha funzionato perché basato sull’equilibrio dei poteri, in quanto garantiva un ordine mondiale basato sull’esistenza di Stati sovrani in confini ben definiti, che non interferissero negli affari interni degli altri Stati, rispettandone la struttura interna, i comportamenti, la fede religiosa. Oggi, complice l’irrompere del Covid e l’esplosione delle tensioni internazionali culminate con l’invasione dell’Ucraina e il confronto geopolitico sempre più rovente fra Cina e Stati Uniti, si è irrobustito il riaggregarsi di nazioni che vanno a ricostituire un fronte di Paesi non allineati senza formalmente esserlo.
Una sorta di Sud del mondo di cui è capofila il Brasile di Lula, seguito nello scomposto mosaico di questo nuovo disordine mondiale da ricche nazioni come gli Emirati del Golfo, come l’Arabia Saudita, il Sudafrica, l’Argentina, il Messico, perfino l’India: non fedeli né nemici dell’Occidente, non amici ma neppure nemici del blocco ex comunista. Un mondo “G-zero”, come lo definisce il politologo Ian Bremmer presidente di Eurasia Group – che legge le crisi in corso con occhi diversi dai nostri: proprio perché nel mondo multipolare non c’è più il solo padrone americano. Anzi, non c’è più nessun padrone. E c’è un Sud del mondo che reclama un’identità, un’autonomia, un futuro finalmente diverso, al di là di quel buco nero.