Le parole del Papa e uno spiraglio aperto dalla presidenza di turno tedesca della Ue illuminano il Mediterraneo ancora dilaniato dalle polemiche strumentali sui salvataggi di (pochi) migranti in mare.
Partiamo dai dati per smentire l’ennesima falsità: dopo la pandemia non c’è stata nessuna «invasione». Secondo il cruscotto statistico del Viminale dall’1 gennaio all’8 luglio sono sbarcate in Italia 7.554 persone. Più che nel 2019, certo, ma lockdown o no, siamo a meno della metà degli arrivi di tutto il 2018 anche se la guerra in Libia infuria proprio sulla testa e sulla pelle di chi, a tutt’oggi, può solo sperare di scappare. I numeri, insomma, sono limitati e del tutto gestibili, anche perché nella Ue oggi c’è un (pur traballante) accordo di ridistribuzione dei richiedenti asilo.
Continuare a insistere sul problema dello "sbarco dei migranti" in modo distorto e urlato alimenta solo la xenofobia. Lo ricordano due donne di mare molto diverse tra loro con due interventi sui social. Carola Rackete, l’appassionata e discussa comandante tedesca della Sea Watch che sfidò poco più di un anno fa il divieto di sbarco imposto dal Viminale per entrare di slancio a Lampedusa e far sbarcare dopo giorni e giorni di limbo i migranti che aveva salvato. E Regina Catrambone, che con la nave del Moas ha salvato migliaia di esseri umani dal 2014 al 2017. Entrambe dicono in sostanza che non è possibile continuare a discutere e trattenere a bordo i migranti a ogni salvataggio. La vita è sacra, in mare non si fanno referendum sull’opportunità di intervenire.
E così tocca ancora una volta a papa Francesco ricordarci che il problema non è racchiuso in un braccio di mare, ma inizia sull’altra sponda del Mediterraneo, in Libia e poi giù lungo le rotte migratorie oggi parzialmente chiuse dal Covid-19, ma pronte a riaprirsi perché le tragedie che sradicano le persone dalla loro terra non sono finite. Ieri, settimo anniversario della visita a Lampedusa che inaugurò significativamente i viaggi di questo pontificato, Francesco ha ricordato le indicibili violenze e le privazioni subite da uomini, donne e bambini perlopiù africani detenuti nelle galere libiche. A lui le raccontò senza giri di parole una interprete etiope. Sette anni dopo non è cambiato nulla nelle luride prigioni gestite dai trafficanti in divisa e in quelle non ufficiali, come su queste pagine abbiamo più volte documentato con immagini e storie. Ma a tutta questa sofferenza si è purtroppo assuefatta buona parte dell’opinione pubblica europea e italiana, ingannata anche da chi ha definito in modo disumano e irresponsabile «centri benessere» i lager libici da cui vediamo scappare persone ridotte a scheletri.È tempo di tornare umani. Mentre la Ue prova a girarsi dall’altra parte quando i trafficanti con la divisa della cosiddetta Guardia costiera libica riportano nei lager i migranti che hanno messo loro stessi in mare per ripetere all’infinito torture ed estorsioni alle famiglie, il Papa continua instancabile a sottolineare l’orrore quotidiano. Impossibile ignorarlo anche all’indomani del faticoso rifinanziamento da parte del Parlamento italiano dei trafficanti in divisa libica, 'pagati' per fare il lavoro sporco.
Serve, perciò, uno scatto della politica per provare a porre termine al cortocircuito mediterraneo. Occorre che, non appena ragionevolmente possibile, venga messo in agenda un grande 'corridoio umanitario' europeo e africano. Questo non significa portare i 48mila profughi registrati in Libia dall’Acnur/Unchr tutti nella Ue, ma coordinare l’accoglienza delle persone vulnerabili tra Paesi europei e partner africani disponibili, in dialogo con l’Unione Africana. Non è un progetto facile, e l’emergenza Covid non aiuta. Ma i numeri non sono giganteschi e l’emergenza finirà.
La priorità è svuotare il più possibile i 'lager libici ed evitare che i trafficanti continuino a guadagnare sulla pelle dei profughi. Le Agenzie dell’Onu da sole non possono farcela senza la collaborazione degli Stati. Ma l’Italia che ha inventato i 'corridoi umanitari'– grazie alla Comunità di Sant’Egidio, alle Chiese evangeliche e alla Cei –, e che attraverso di essi in questi anni ha già fatto arrivare legalmente e in sicurezza circa tremila persone, ha i titoli per condurre un’iniziativa di sensibilizzazione verso la presidenza di turno tedesca. Che ieri, per bocca del ministro dell’Interno, il cristiano sociale bavarese Horst Seehofer, ha aperto anche alla riforma del regolamento di Dublino che ancora obbligherebbe i richiedenti asilo a rimanere nel primo Paese di approdo. Anche per Seehofer Italia, Malta, Spagna e Grecia non devono più affrontare da sole il peso delle richieste di asilo. A settembre è attesa una proposta di riforma da parte della Commissione, e occorre più che mai che anche su questo tema i Paesi mediterranei dell’Ue trovino unità.