Non aveva mai pianto Juniò. Quando fu costretta a separarsi da lui, la mamma gli disse che avrebbe dovuto essere forte. Aveva sopportato di non avere più un padre. Adesso doveva farsi forte perché la mamma e la gemellina se ne andavano e le loro vite si sarebbero dovute dividere.
Separarsi per provare a salvarsi. Ma Juniò è stato forte. E lo era ogni volta che doveva mettersi in posa per farsi scattare una foto e inviarla alla mamma nel frattempo giunta in Italia su un barcone. Juniò, sorrideva e la rassicurava. A sette anni doveva dimostrare di saper mantenere le promesse. Che non si sarebbe fatto vincere dal più straziante degli abbandoni.
Questa mattina, finalmente, Juniò ha pianto. Ma da solo, senza farsi vedere dai grandi. E’ allora che Juniò è tornato bambino, aggrappato alla mamma, abbracciato alla sorella. La corsa tra le loro braccia, il sorriso aperto di chi non aveva bisogno di dire una parola per mostrare di avere mantenuto la promessa. Di essere stato forte. Forse uno dei momenti più commoventi e felici a cui abbiano mai assistito nel Cara di Capo Rizzuto. Il centro per richiedenti asilo dove Juniò dopo la quarantena sulla Moby Zazà è arrivato.
Juniò con la madre e la sorellina - Foto Croce Rossa Italiana
Maglietta rossa, jeans e scarpe da ginnastica, Juniò ha ritrovato quello che resta della sua famiglia. La mamma non ha mai perso la speranza. Diceva di conoscere quel suo ragazzo, che seppur bambino Juniò non è tipo da darla vinta ai cattivi. Li a Zawyah, le autorità internazionali stavano facendo il possibile per aiutarlo e riuscire a tirarlo fuori. Unhcr-Acnur, Oim, erano finalmente riuscite a rintracciarlo in un casolare non lontano dal centro di prigionia ufficiale, quello del guardacoste-trafficante Bija e di suo cugino Osama, il padrone della vita e della morte dei migranti internati. Nel pieno degli scontri armati, con violente faide interne alle milizie, Juniò era scomparso insieme alla donna che lo accudiva e con la neonata di lei.
Settimane dopo dalla Sea Watch una migrante è riuscita a mettersi in contatto con la mamma di Juniò: “Siamo salvi, dicono che ci porteranno in Italia”. Così, grazie al team di Sea Watch, è stato possibile mettere a confronto le foto del bambino a bordo con quelle che la mamma di Juniò aveva fatto avere ad Avvenire. Nessun dubbio che si trattasse di lui. A quel punto il grazie al lavoro incessante della Croce rossa italiana, che aveva preso in carico Juniò sulla nave quarantena Moby Zazà, e l’impegno delle autorità territoriali in Sicilia, è stato possibile stabilire il riconoscimento formale e avviare il ricongiungimento mentre a Capo Rizzuto il direttore del centro di permanenza, Mario Siniscalco, insieme al personale non ha mai lasciato da sola la donna con la figlia avviando tutte le procedure per riunire la famiglia.
Entrambi i bambini sono già stati iscritti a una scuola elementare di Roma, e per loro si profila un futuro finalmente più sereno.
La scrittrice Caterina Bonvicini, che si trovava a bordo della Ocean Viking, quando la mamma e la sorellina del bambino ivoriano furono salvate, si farà carico con il marito, il giornalista Riccardo Chiaberge, di accogliere e accompagnare la famiglia nel suo cammino di inserimento in Italia.
Una storia a lieto fine che ha rischiato molte volte in queste settimane di avere un epilogo drammatico. Prima l’abbandono forzato in Libia, poi l’attraversamento del Mediterraneo. Con il rischio di venire catturati da una motovedetta libica e portati stavolta nel campo di prigionia di Zawyah.
Da gennaio di quest’anno sono almeno 1.500 i migranti intercettati in mare, respinti verso la Libia, e di cui si sono perse le tracce. Secondo gli ispettori delle Nazioni Unite anche i bambini non di rado sono vittime di soprusi e vessazioni.
Juniò è salvo, la sua famiglia è tornata insieme. Ma per centinaia di Juniò, in Libia le storie non hanno alcun finale.