Un'immagine di Juniò, 7 anni, scattata quando si trovava in Libia
Juniò ha compreso che non era più bambino il pomeriggio in cui in Libia gli hanno ammazzato il padre. Juniò ha compreso che doveva essere uomo una sera di aprile, quando la mamma e la sorellina gemella di sette anni lo hanno lasciato a una conoscente ivoriana in un dignitoso tugurio. Partivano per l’Europa, su un gommone. Forse non si sarebbero mai più visti.
Nel cuore l’abisso di un dolore che la madre doveva nascondere alla bambina, mentre lo scafista li gettava a forza dentro al canotto sulla spiaggia di Zawyah. Salvate dalla Ocean Viking la donna e la figlia sono ora nel Cara di Crotone, il centro per richiedenti asilo dove ieri, dopo una settimana e più di terribile silenzio, ha ricevuto una telefonata. L’amica le aveva promesso che non sarebbe salita su un barcone, e che mai ci avrebbe portato Juniò. In famiglia è "junior", ma pronunciato alla francese. Un nomignolo che è già un titolo da romanzo, per una vita che nessuno letterato butterebbe addosso a un bimbo, senza correre il rischio di non aver messo freno a una fantasia fin troppo cinica.
Ma ieri Juniò è riapparso a bordo della Moby Zazà. La nave quarantena ormeggiata ad Agrigento dove 28 migranti sono risultati positivi al Covid-19. Erano stati salvati dalla Sea Watch. La riprova che nonostante tutti i soldi versati, in Libia nei campi di prigionia non vi è alcuna tutela per le persone. La Moby, ancorata nella rada di Porto Empedocle, ha a bordo 209 profughi assistiti dalla Croce rossa. Al momento i positivi sono asintomatici o con sintomi del tutto lievi e non sono previste evacuazioni mediche, come avvenuto per altri due migranti uno dei quali è ricoverato a Caltanissetta. Le procedure adottate «garantiscono la piena tutela della sicurezza sanitaria del Paese» precisano fonti del Viminale.
Anche Juniò era sulla nave umanitaria. Sperduto eppure allegro, nessuno conosceva la sua storia. Le agenzie umanitarie dell’Onu erano riuscite a individuare il bambino in Libia e assisterlo senza poterlo da subito evacuare da Zawyah a causa del conflitto. C’era un piano per portarlo dalla mamma. Una volta placate le armi si sarebbe potuto pensare al ricongiungimento familiare. Poi le cose sono precipitate.
Dopo essere sopravvissute ai campi di prigionia, la mamma e i gemellini erano riusciti guadagnarsi la libertà, recandosi a vivere con una ivoriana in un alloggio di fortuna. Nessuna speranza in Libia per le donne di colore. Aggredite per strada, stuprate, imprigionate a forza. Ma lei non voleva ritornare nell’inferno di una delle “Osama prison”, come i migranti chiamano l’inferno gestito dalla milizia al Nasr, quella di "Bija" e di suo cugino Osama, considerato anche dalla giustizia italiana come il capo torturatore.
E la ragazza doveva mantenere la promessa che lei e il marito si erano fatti. Andare in Europa, e piangere, ma finalmente di gioia, lontano dalla fame e dalle armi che anche in Costa d’Avorio li avevano costretti a cercare riparo altrove. In Europa per insegnare ai bambini che si può vivere senza dover temere la lama del machete o dover mentire sul rumore delle armi che arrivava dal villaggio vicino.
«Senza più mio marito dovevo scegliere, non potevamo più restare in Libia e non volevo che tutta la mia famiglia morisse in mare. Qualcuno di noi doveva sopravvivere». E Juniò, maschio di quasi sette anni, era l’unico dei tre che secondo lei avrebbe forse potuto cavarsela. Non la bambina, che laggiù non avrebbe fatto in tempo a diventare ragazza, per finire chissà in quale mani. Non la madre che quella fine l’aveva già vista fare a troppe. «Però se io e mia figlia saremmo morte nel mare, Juniò restando in Libia forse sarebbe almeno vissuto e cresciuto, e un maschio può affrontare meglio quelle difficoltà, e della nostra famiglia sarebbe rimasto qualcosa in questo mondo».
Non è facile da capire. Abbandonare un bambino in uno dei posti peggiori della terra. Meglio rischiare di morire tutti, verrebbe da dire. Non per tutti è così. Viene in mente Re Salomone davanti al bambino conteso da due donne. Con il giudice saggio che per ottenere la verità propose di dividere il piccolo e darne metà per uno alle contendenti. La vera madre, piuttosto che veder morire in quel modo il figlio, disse di lasciarlo all’altra donna. Fu così che Salomone capì chi era la vera mamma. Nella favola di Juniò c’è molto di questa antica e per molti ancora misteriosa saggezza.
Il lieto fine, adesso, dipende da qualche timbro e dalla cornetta di qualche telefono che dovrà essere sollevata per non infliggere a quel che resta di una famiglia di restare ancora divisa. Sulla loro strada, a bordo della Ocean Viking, avevano incontrato la scrittrice Caterina Bonvicini, spesso a bordo delle navi umanitarie. E sarà proprio Caterina con il marito, il giornalista Riccardo Chiaberge, a prendersi cura di loro, se gli sarà permesso. Ieri quando la mamma mi ha chiamato «non capivo se rideva o piangeva, mi sono spaventata. Invece si mangiava le parole per la felicità. È vivo, diceva, è stato salvato dalla Sea Watch. Aveva ricevuto un messaggio nella notte dalla sua amica ivoriana».
Ad aspettare i bambini c’è già una scuola di Roma, dove potranno frequentare la prima elementare. Avranno una casa, un lavoro per la madre. La bambina attraverso una piattaforma digitale già frequenta a distanza un corso di istruzione e in meno di due mesi parla già un buon italiano. Bonvicini era sul gommone veloce che correva per raggiungere il barcone alla deriva. «Non le ho viste nascere – dice Bonvicini –, ma le ho viste rinascere». Da ieri una seconda volta.