La Route Coloniale 1 si snoda pigra da Phnom Penh al confine thailandese lambendo il Mekong che d’improvviso si dilata nel Tonle Sap, il fiume-lago che nella stagione monsonica da placida depressione alluvionale si gonfia in una diastole trionfale nell’indolente natura tropicale garantendo riso, proteine animali e pesce a 3 milioni di cambogiani, in un’oasi di biodiversità senza tempo dominata dalle migliaia palafitte in cui si assiepano immemorabili dinastie di pescatori. Siamo lontani dalla capitale, dai suoi boulevard hausmanniani, dalle sue memorie sepolte sotto la cenere del tempo; lontano dai monaci buddhisti con i loro sari color zafferano, dalla leggendaria fumeria di Madame Chum, dalle ragazze delle maisons flottantes, da quello spicchio di Indocina che i francesi trasformarono in un giardino profumato, da quella dolce vita che per quasi un secolo dominò quella Parigi d’Oriente e che attirò poeti, scrittori, avventurieri, uomini d’affari alla ricerca di un Eden costruito su misura per l’immaginario occidentale.
Tutto questo oggi non c’è più. La Cambogia è semmai luogo di sgangherata modernità e di conciliata sofferenza, di tragici ricordi e di un passato che fatica a guardare il futuro nonostante la rinascita economica, la popolazione quadruplicata in pochi anni, la promessa di uno sviluppo che se pure lontano dai traguardi vietnamiti, cinesi e thailandesi promette una piccola scheggia di benessere anche ai meno fortunati. Formalmente la monarchia costituzionale garantisce ai cambogiani una democrazia parlamentare. Di fatto, oltre ad essere una delle nazioni più corrotte del mondo (veleggia oltre il 167° posto su 173), la Cambogia ha solo cambiato pelle e da oltre trent’anni non ha cambiato leader. «Il padre padrone – spiega Ben Sokhean, analista del Phnom Penh Post in odore di eresia – è e rimane Hun Sen, l’uomo al potere da trent’anni che ha solo dismesso la casacca rivoluzionaria Khmer per indossare il completo blu presidenziale. Il re è solo una figura rappresentativa, l’opposizione inesistente. Di fatto i Khmer rossi sono rimasti gli stessi: maoisti nell’animo, affaristi spietati nella quotidiano». Ben ha ragione. L’ideologia dei Khmer rossi discende direttamente dal maoismo. La Cina è stata a lungo il modello di riferimento, dapprima per il re Sihanouk, poi per il sanguinario Pol Pot, quindi ancora per il suo epigono Hun Sen. Una sudditanza rimasta intatta, come l’ostilità nei confronti del Vietnam e la presa ferrea sui mezzi di informazione. Guai a criticare il governo: si rischia il carcere, perché la legge punisce l’oltraggio all’onore della nazione.
I magnifici templi della capitale, le smaltate pagode che rilucono d’oro, l’indaffarata gioventù che sciama per le vie di Phnom Penh non debbono trarre in inganno: a dispetto della sua vitalità la Cambogia rimane suo malgrado una sorta di immenso cimitero a cielo aperto. Come si scorge negli occhi dolci e insieme tristi di Vithy, la mia guida, quando gli chiedo notizie del grande genocidio che tra il 1975 e il 1979 ha scandito la parabola del più radicale dei maoisti del sud est asiatico, quel Pol Pot che in ossequio al Grande Timoniere e alla sua rivoluzione culturale mescolata con un virulento anticolonialismo una volta giunto al potere rovesciando il corrotto Lon Nol proclamò il comunismo perfetto con l’abolizione del denaro, della finanza e delle banche, la statalizzazione di ogni impresa e attività lavorativa, la messa fuorilegge di ogni religione, l’abolizione della magistratura e del sistema giudiziario, l’omogeneizzazione sociale di tutti i cambogiani con la deportazione in massa nelle campagne degli abitanti delle città e – da ultimo – l’eliminazione fisica di ogni sospetta influenza straniera o borghese. Risultato, una purga di massa che diventa tragedia collettiva, con la popolazione che muore di fame, l’invito alla delazione, l’arresto di chi portava gli occhiali e l’esecuzione immediata di chi possedeva libri e leggeva giornali, strumento – a giudizio di Pol Pot (in questa tragica rappresentazione dell’uguaglianza forzata chiamato dal partito 'Fratello Numero Uno') – di corruzione imperialista.
Fra i campi di sterminio, le carceri, la fame, le malattie almeno due milioni e cinquecento mila cambogiani trovano la morte nella breve ma letale parabola dei Khmer rossi. Come ricorda Jon Swain nel suo River of Time, uno dei pochi testimoni della caduta di Phnom Penh nel 1974: «Molte famiglie che avevano perduto la casa, il lavoro, ogni bene, finivano con il vendere i propri figli ai pochi occidentali rimasti: una tragica asta non molto diversa da quella degli schiavi». Con l’aggravante che quella ignobile fiera delle adozioni trovava parziale giustificazione nella Mission Civilisatrice che per lungo tempo i francesi hanno brandito come stendardo della propria superiorità culturale. Come dire: «Vendeteci i vostri bambini, noi sappiamo provvedere meglio di voi al loro bisogno di cure e amore».
Ma è nel cuore di Phnom Penh, in quel liceo di nome Tuol Sleng (in lingua khmer: 'Collina del mango selvatico') ribattezzato Ufficio di sicurezza 21 che dall’agosto del 1975 cominciò a funzionare la macchina del genocidio destinata nel nome di Mao Zedong a purificare il popolo dai nemici borghesi. «Uccidevano i bambini più piccoli rompendogli il cranio su questa palma – racconta Vithy – obbligando i genitori ad assistere allo spettacolo. A migliaia sono stati torturati e uccisi, mutilati, bastonati, ma solo dopo aver firmato una raggelante confessione». Come le celle, le catene, i letti di tortura, i verbali ci sono ancora: puntigliosi come i nazisti, i Khmer rossi tenevano una scrupolosa contabilità del lager. Era davvero necessario? «Secondo i principi del maoismo sì – dice Vithy –: la rieducazione, la purga, fanno parte della mentalità cinese. E Pol Pot la fece sua fin dal primo giorno».
Metafora asiatico-confuciana della psicoanalisi secondo alcuni, la rieducazione maoista lascia ancora impronte incancellabili. Come quelle scritte dorate sul basalto, una sorta di Memorial Wall che si distende lungo il perimetro del giardino del liceo, su cui sono incisi i nomi di tutte le vittime del Tuol Sleng. «Questo – dice Vithy sorridendo (difficilmente un asiatico si abbandonerà pubblicamente alla commozione) – è il nome di mio padre. Avevo sedici anni quando sono venuti a prenderlo una sera a casa nostra. Lo hanno portato nello stadio insieme a centinaia di altri. Non abbiamo saputo più niente di lui. Fino a quando abbiamo letto il suo nome sui verbali dell’Ufficio di sicurezza S 21». Ma dove sono oggi i Khmer rossi – domando – dov’è finita, una volta liquidato Pol Pot, la sanguinaria nomenklatura comunista che trasformò la Cambogia già piagata dai bombardamenti americani che fecero centinaia di migliaia di vittime in un tragico mattatoio? «Bella domanda – risponde Vithy –: ma la risposta è semplice. Hun Sen stesso non era forse un alto funzionario del partito all’epoca di Pol Pot? Oggi si proclama guida del popolo, ma sono davvero pochi i Khmer rossi che hanno pagato per i loro crimini».
È vero, i Khmer comunisti sono rimasti al proprio posto e guadagnano consensi: l’economia fa balzi da gigante, il Paese cresce del 7% annuo, esporta riso, abiti, piccola elettronica, cresce e consuma grazie anche all’afflusso di capitali stranieri e ai turisti che vengono da tutto il mondo a visitare il sito di Angkor Vat E pazienza se rispetto al vorticoso dinamismo del Vietnam la Cambogia resta ancora un’oasi di profonda arretratezza: il bastone e la carota della nomenklatura post-maoista garantiscono ordine e stabilità. Del resto anche qui, come in tutta l’Indocina, la speculazione ha fatto grandi affari: francesi, tedeschi, svizzeri hanno comprato le spiagge che si affacciano sul Golfo del Siam messe in vendita senza gara d’appalto da Hun Sen, che senza troppi riguardi – l’accusa viene dalla Banca Mondiale e da Amnesty International – ha cacciato la popolazione costiera ed espropriato i suoi terreni senza alcun indennizzo. «La Cina ha fatto scuola – dice Vithy – il vecchio maoismo è diventato un comitato d’affari». E sorride di nuovo. Lo stesso sorriso pieno di enigmatica tolleranza delle mille statue che adornano i tempi che tutto il mondo viene qui ad ammirare.
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