Il richiamo del proprio ambasciatore per "consultazioni" è una misura formale grave che in genere si adotta tra Paesi l’uno all’altro ostili. È un inedito nel campo delle relazioni tra due Paesi alleati, entrambi membri dell’Unione Europea e dell’Alleanza Atlantica. Le tensioni tra Roma e Parigi sono cresciute in maniera esponenziale nei pochi mesi di governo giallo-verde. La Francia è stata accusata di ipocrisia nella gestione dei flussi migratori, di «neocolonialismo» per la querelle sul «franco coloniale», di «fornire ospitalità ai criminali italiani» per la sua politica verso i terroristi latitanti degli "anni di piombo". Ci sono, com’è noto, valutazioni differenti tra Parigi e una parte del governo di Roma sulla Tav, così come non certo da ieri agli italiani, giustamente, non piace il doppiopesismo con cui Oltralpe si agisce in tema di migrazioni irregolari su un confine alpino reso rovente e gelidamente mortale e con cui si guarda soprattutto alle acquisizioni e fusioni internazionali: nello spirito del mercato unico, quando sono società francesi a fare shopping da noi e invece da ostacolare quando avviene il contrario (si pensi al caso dei Cantieri di Saint Nazaire). E resta la divergenza sul dossier libico.
Nella sua nota il Ministero francese dell’Europa e degli Affari esteri, fa riferimento però a come la Francia sia stata oggetto, per mesi, non solo di accuse ritenute prive di fondamento, ma anche di «dichiarazioni oltraggiose», al fatto che «le ultime ingerenze costituiscano una inaccettabile provocazione», che viola il rispetto per le scelte democratiche fatta «da un popolo amico e alleato», ingiustificabili, pur nell’ambito della campagna per le elezioni europee, e tali da creare «una situazione grave che pone un interrogativo sulle intenzioni del governo italiano nei confronti della sua relazione con la Francia». Il riferimento è alla scampagnata che il vicepremier Di Maio e il suo veemente collega di partito Di Battista hanno fatto a Parigi nei giorni scorsi per incontrare Christophe Chalencon, un esponente dei gilet gialli noto per aver invocato un «colpo di stato militare allo scopo di cacciare il presidente Macron ed evitare così la guerra civile», incontro che faceva seguito a tutta una serie di dichiarazioni di sostegno aperto alle proteste contro il presidente Macron. Quello che appare stupefacente nel comportamento degli esponenti del governo è la straordinaria leggerezza pari solo all’assenza di leggiadria con cui parlano e agiscono. In taluni casi, probabilmente non si muovono in ossequio a un disegno strategico (il ministro Toninelli che dichiara compiaciuto «chi se ne frega di andare a Lione!»...), ma in altri il sospetto è che per puro calcolo elettoralistico non si esiti a mettere a repentaglio gli interessi nazionali.
Pur di arrivare al voto europeo con il vento dei sondaggi in poppa, o nella speranza di risalirne la china, non ci si perita dall’insultare un capo di Stato di un Paese amico con battute allusive e oltraggiose, di entusiasmarsi per chi inscena proteste violente, di accusare un Paese e un popolo di vivere sfruttando le ex colonie. Non si capisce che Macron passerà, prima o poi, come passeranno i Salvini e i Di Maio, ma la Francia e l’Italia restano, e i popoli e gli Stati rischiano di pagare un prezzo altissimo per le dichiarazioni e la azioni di alcuni politici temporaneamente al governo. Il grande successo conseguito dalla coalizione giallo-verde nell’arena internazionale in poco più di otto mesi, è di aver provocato l’isolamento dell’Italia, andando contro tutti gli sforzi compiuti non nella storia della Repubblica, ma in tutta la vicenda dello Stato unitario, da Cavour in poi, con l’eccezione di Mussolini. Di questo passo, aspettiamoci allora che nella piazza virtuale tanto amata da Salvini e Di Maio compaiano post al grido di 'Nizza, Corsica e Savoia!' con tanti bei like. Davvero esponenti di vertice di questo esecutivo ritengono gli italiani così beoti da abboccare all’amo di un patriottismo da stadio? E che per questo calcolo meschino valga la pena di mettere a repentaglio le relazioni con uno dei nostri principali partner commerciali e industriali, con un Paese amico, dove vivono 350mila connazionali? Dovremmo noi italiani avere imparato sulla nostra pelle che la fortuna dei demagoghi fa la disgrazia delle Nazioni e che fare della caciara la propria linea di politica estera rappresenta una caduta di stile, un errore di strategia e un tradimento dell’interesse nazionale.