In Iran gli imputati confessano anche colpe di una gravità tale, che saranno punite con l’impiccagione. Dunque, si autoimpiccano. Mi domando se sono vili. E rispondo che no, sono più coraggiosi di me, perché io confesserei non durante l’interrogatorio, ma prima: non occorre che si metta in azione su di me qualche macchina della tortura, basta soltanto ch’io la veda.
La tortura, aveva ragione Beccaria, non è uno strumento per far saltar fuori la verità che è nel torturato, ma per fargli dire la verità che il torturatore vuole. Alla fine di un interrogatorio gli inquirenti in Iran condannano l’interrogato con la formula “nemico di Dio”, e c’è effettivamente un nemico di Dio in quell’interrogatorio, ma è il giudice interrogante. Il quale applica l’astuzia di moltiplicare per mille la forza condizionante delle sue torture, e l’astuzia consiste non nell’incrudelire le torture stesse, ma nell’immergerle nel buio. È il buio che fa paura. In un film di Dario Argento ci sono tre sorelle diavolesse, una più crudele dell’altra, c’è la Mater Tenebrarum, la Mater Suspiriorum e la Mater Lacrimarum, e il film si snoda alla ricerca di chi è la più crudele delle tre, e la risposta dice che la maggior crudeltà non sta nei Sospiri e nemmeno nelle Lacrime, ma nella Tenebre: è il buio l’elemento della disperazione. In Iran lo sanno, e interrogano l’inquisito bendandogli gli occhi. Lui sente le domande e dà le risposte senza vedere niente.
Se gli interroganti non sono malvagi e lo picchiano raramente, con un colpo in testa, lui non sente quel colpo solo quando gli arriva, ma sempre, continuamente. In questo momento, mentre scrivo, ci sono 11 imputati che aspettano di essere giustiziati. Perché diciamo subito “giustiziati”? Perché vanno a processo non per vedere se meritano una condanna ma per scontare direttamente la condanna. Nella mia vita d’insegnante ho fatto più volte il commissario di maturità, andavo dove lo Stato mi mandava, sono stato anche a Trieste, e nelle pause dei lavori ho visitato la Risiera di San Sabba.
La quale è un lager. Nel lager stavano i prigionieri dei nazisti prima di essere interrogati e destinati. Le cellette microscopiche son piene di graffiti, son gli addii dei detenuti, addii ai parenti, agli amici, alla vita, a noi. Non sanno niente ma sanno tutto: sanno che per loro questa è la fine.
Nella costrizione, nella prigionia, l’unico che può venirti in aiuto è il carceriere, quello che ti ha in pugno. Confessando ciò che lui vuole che tu confessi cerchi d’ingraziartelo, di fartelo amico: lui non verrà mai sul terreno dove tu sei, ma tu puoi andare nel terreno dove lui è. Un giornale ha la crudeltà di mostrare la faccia, in foto o in disegno, dei condannati in attesa di esecuzione, e io guardo queste facce un attimo prima che si autoincriminino, capisco la verità che il pubblico dei lettori ha difficoltà ad accettare: la confessione non è una prova della cattiveria del condannato, a volte è l’esatto contrario, la prova della cattiveria del condannante.