Ammalarsi e morire di lavoro nei campi agricoli. Ammalarsi e morire per portare sulle nostre tavole pomodori, clementine, insalatine e uva. Frutta e ortaggi che grondano fatica e sangue. Tantissimo. Troppo.
Secondo un articolo pubblicato ieri sul British Medical Journal, autorevole rivista scientifica inglese, sono oltre 1.500 i braccianti agricoli extracomunitari morti negli ultimi 6 anni in Italia a causa delle loro condizioni di lavoro: 250 all’anno, uno ogni giorno e mezzo. Morti di sfruttamento e di caporalato. Morti per le massacranti modalità di lavoro. Nell’articolo, scritto da medici italiani del Cuamm, si indaga e descrive una situazione che "Avvenire" documenta e denuncia da molto tempo, anche con lunghi reportage nelle regioni italiane. E lo si fa con l’occhio dell’uomo di scienza e col cuore del volontario. I medici del Cuamm, infatti, operano sia in Africa sia nei tantissimi ghetti italiani, da Borgo Mezzanone a San Ferdinando, l’unica ospitalità che il Paese è capace di offrire a più di 100mila braccianti immigrati.
Lavoratori tre volte sfruttati, dagli imprenditori, dai caporali e, indirettamente, dalle istituzioni nazionali e locali che li costringono a vivere in degradanti e degradate baraccopoli o tendopoli. E non è una risposta 'spostarli' da una baracca a una tenda, come in occasione del tanto sbandierato smantellamento del ghetto di San Ferdinando. Così c’è poco da stupirsi se il lavoro nei campi e la non-vita nei ghetti li fa ammalare e morire in così tanti. L’articolo parla di disidratazione dopo 10-12 ore di lavoro sotto il sole, di malattie articolari per le ore passate piegati in due o a trasportare cassette in quantità: più ne riempi e più ti pago, è la disumana regola del vietatissimo ma molto applicato lavoro a cottimo.
Ma ci si ammala anche di polmoniti e altre sindromi da raffreddamento, perché non c’è pioggia che tenga per questi schiavi dei campi, che poi tornati a 'casa' trovano solo pareti di plastica o cartone. E magari per provare a scaldarsi accendono un braciere, col rischio di morire bruciati. Ce lo raccontano i quattro morti in poco più di un anno a San Ferdinando. L’ultimo sotto una 'sicura' tenda. Ma loro nella contabilità dell’articolo non ci sono. Si parla, infatti, solo dei morti da lavoro, «questa inaudita ferocia», la definiscono i medici del Cuamm che lanciano un appello a essere «dei 'cani da guardia' che difendono gli ultimi e gli sfruttati, i più fragili».
Si muore in mare, in questi mesi con sempre meno occhi che possono vedere e soccorrere. Si muore sui campi e ben pochi occhi vogliono vedere. Vedono e intervengono, come sempre, i volontari, ad esempio quelli del Progetto Presidio della Caritas. Vedono e intervengono magistrati e forze dell’ordine, che con professionalità e impegno, colpiscono in maniera crescente gli sfruttatori e gli schiavisti, grazie all'ottima legge 199 del 2016, sul contrasto al caporalato. Una legge che, con affrettato è stupefacente giudizio, alcuni ministri hanno dichiarato a più riprese di considerare fonte di 'complicazioni'. Mentre dovrebbe essere ancor più applicata, soprattutto nella parte dedicata alla prevenzione, perché quando scattano gli arresti e i sequestri delle aziende, più che sacrosanti, è sempre tardi: il danno, lo sfruttamento, la violenza, la morte ci sono già stati. Un elenco terribile, persone che nel nostro Paese cercavano un lavoro vero e che invece hanno trovato solo un lavoro nero e disumano. Non smetteremo mai di ripeterlo, questi immigrati sono lavoratori, e sono immigrati regolari. Sono fondamentali per la nostra economia agricola, per produrre quel made in Italy famoso nel mondo. Irregolare è chi li sfrutta, chi si arricchisce, mafie e imprenditori sleali, sulla loro pelle. Pelle nera degli schiavi del terzo millennio.