Nel suo discorso di apertura alla Cop 27 che si sta svolgendo in Egitto, il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha lanciato l’ennesimo grido di allarme: stiamo camminando sulla strada che porta all’inferno. Ma il mondo sembra non essere disposto ad ascoltare. Altre urgenze incombono: la guerra prima di tutto. E poi l’inflazione, il rischio di recessione, le forniture di gas. O più banalmente le varie tornate elettorali nazionali su cui si concentra l’attenzione di politici e opinione pubblica.
Dalla globalizzazione non si può tornare indietro. Nel senso che non è possibile immaginare di ricreare spazi separati su un pianeta non solo integrato dal punto di vista tecnologico, scientifico, economico, energetico, ma anche accomunato dalla questione climatica. Che non permette a nessuno di tirarsi fuori. Dunque, la questione è: verso quale globalizzazione ci stiamo indirizzando?
Nel corso degli anni, papa Francesco ha più volte parlato di «globalizzazione dell’indifferenza». Un mondo in cui ogni singolo individuo e ogni singolo Paese – concependosi come sovranità assoluta – poteva disinteressarsi di ciò e di chi gli stava attorno. Un’illusione pericolosa che rischia adesso di trasformarsi nella «globalizzazione dei conflitti»: successione senza soluzione di continuità di emergenze e tensioni che si scaricano – in forme più o meno violente – all’interno dei singoli Stati o fra Stati. È questo
infatti il senso profondo degli choc che ci stanno colpendo uno dopo l’altro e di cui non si vuole riconoscere il fondamento comune. Il dissesto climatico, l’emergenza sanitaria, la guerra, le grandi migrazioni, le disuguaglianze, non sono eventi che si susseguono più o meno casualmente. E che possono essere affrontati in modo segmentato. Ma fattori che si richiamano l’un l’altro con un effetto domino che dovrebbe seriamente preoccuparci. È il tema della complessità, cioè della interdipendenza, del mondo che abbiamo costruito.
Pensiamo alla guerra in Ucraina: al di là della questione territoriale, questo conflitto è un fattore di crisi planetaria che mette in discussione gli assetti geopolitici globali; causa conseguenze economiche profonde sull’economia mondiale attraverso il blocco delle forniture energetiche; e, cosa ancora più drammatica, aggrava i problemi di malnutrizione (già aumentata a causa del Covid) in molti zone del mondo. Tutto questo ha implicazioni sulla stabilità politica di diversi Paesi, alimenta i processi migratori, aggrava le spinte fondamentaliste. In più, la guerra fa perdere tempo prezioso sulla tabella di marcia che il mondo dovrebbe seguire per scongiurare le conseguenze più devastanti dei cambiamenti climatici, ritardando la traduzione concreta degli impegni (peraltro già insufficienti) presi a Parigi e a Glasgow.
Gli Stati continuano a ragionare in termini di sovranità territoriale. Gli individui a pensare in termini di interesse individuale. Come se fossimo ancora nel XX secolo. Quello che sfugge è che qualsiasi sovranità esiste solo in relazione a ciò che la circonda. Al di là dei livelli di governo nazionali, al di là della legittima aspirazione a una maggiore prosperità personale, oggi abbiamo questioni comuni che richiedono spirito di cooperazione, creazione di sinergie, costruzione di alleanze. Il conflitto, la contrapposizione, la settorializzazione delle questioni non fanno altro che aggravare i problemi e allontanarci dalla soluzione.
L’unica strada per evitare l’escalation dei conflitti è dunque la “globalizzazione delle soluzioni” che richiede il riconoscimento di un interesse superiore – a cominciare dal clima, dalla pace, dalla convivenza delle culture e delle religioni – che impone un modo diverso di fare politica, di fare economia, di fare Chiesa. L’eredità della prima stagione della globalizzazione – che pure ha permesso al mondo di fare un enorme salto in avanti – è un insieme di squilibri e tensioni che hanno bisogno di un salto di complessità istituzionale e culturale.
Di fronte all’elenco quasi sterminato dei problemi che dobbiamo affrontare, fatichiamo a prendere atto che la realtà è cambiata. O meglio che la realtà l’abbiamo cambiata noi stessi. E che questa nuova condizione richiede un modo di pensare e agire basato sul dialogo, la collaborazione, l’intelligenza del bene comune. Prima o poi, tutto questo sarà chiaro. Il problema è arrivarci senza dover pagare costi umani troppo alti.