Caro Avvenire,
la cronaca di questi giorni ci dice ancora una volta che di fronte ad atti di violenza per strada o sui mezzi pubblici molti si voltano dall’altra parte. Non accade sempre così. Ai primi di giugno 2017 i nostri studenti del Dipartimento di Scienze agrarie, forestali e alimentari dell’Università di Torino, al termine di una escursione a Sanremo, sono intervenuti coraggiosamente avendo udito le grida disperate di una ragazza che in prossimità della spiaggia veniva malmenata e violentata per essere poi avviata alla prostituzione. Hanno salvato la ragazza, chiamato la polizia e collaborato con gli agenti per sistemarla, e io stesso la mattina successiva l’ho poi accompagnata alla stazione di Polizia e all’ospedale. La foresta che cresce, non fa rumore e neanche audience.
Valter Boero Università di Torino
Che delle bande di ragazzini, come si è ripetuto in questi giorni, aggrediscano dei coetanei senza alcuna ragione, già sembra un segno di un impazzimento che germina oscuramente nel tessuto sociale. Li diresti barbari, ma forse nemmeno i barbari si accanivano sui viandanti senza un motivo. C’è però un fenomeno altrettanto sinistro registrato dalle cronache, ed è che spesso i presenti non intervengono in difesa della vittima. Nell’ultima aggressione a Napoli le telecamere di sorveglianza hanno testimoniato questa collettiva omissione, questo voltarsi tutti dall’altra parte, come se niente fosse. Come se quel ragazzo malmenato non fosse riconosciuto uguale a un figlio, o un fratello. In difesa di un figlio si interviene; e si interviene anche per un estraneo, se scatta un umano riconoscimento, il vedere in uno sconosciuto uno di noi – uno di cui ci importa. È un meccanismo che solitamente opera nelle società civili. Se questo meccanismo non funziona è come se ci tremasse la terra sotto ai piedi: sono le fondamenta del nostro vivere insieme, che sembrano cedere. Il professor Boero però ci racconta un episodio simile alle cronache di questi giorni, con tutto un altro finale. Un gruppo di studenti è intervenuto a impedire lo stupro di una coetanea, su una spiaggia di Sanremo. Nessun media il giorno dopo ha raccontato l’episodio; forse, giornalisticamente, uno stupro sventato non è da titolo, e lo è invece che dei ragazzi siano massacrati di botte, mentre tutti guardano altrove. Il fare il bene difficilmente fa notizia, se per notizia si intende ciò che “spacca” e contraddice la normalità. Per questo, dentro all’indifferenza che ci prolifera attorno, anche noi giornalisti dovremmo forse modificare i nostri canoni. Dovremmo capovolgerli, e raccontare anche tutte le volte che una violenza è sventata, tutte le volte che qualcuno si mette di mezzo e si fa carico del destino del prossimo, sconosciuto. Come questi universitari torinesi, che non hanno esitato a schierarsi in favore di una ragazza aggredita. Dovremmo raccontarci di più il bene, per non lasciarci smarrire, per non finire col convincerci che ormai viviamo in una giungla. Per non diventare cinici e disillusi. Abbiamo bisogno di sentirci testimoniare il bene, per rincuorarci e per continuare a sperare. Per non aver paura di far nascere dei figli in questo mondo, abbiamo bisogno di imparare a tendere l’orecchio, e imparare, sì, a riconoscere il rumore tenue, ma ampio e fedele, della foresta che cresce.