Dopo aver vinto di misura le scorse elezioni, e sono passate solo sette settimane, il primo ministro israeliano Bibi Netanyahu ha ora fallito nel tentativo di creare un nuovo governo, proiettando il Paese verso una nuova tornata elettorale, prevista per il mese di settembre. Una sconfitta, quest’ultima, che mostra come si stia riducendo la sua straordinaria capacità di giostrare all’interno di un sistema politico frammentato e caratterizzato da continue rivalità personali come quello israeliano.
In un sistema puramente proporzionale, in cui una pluralità di piccoli partiti tiene spesso in scacco le formazioni maggiori, oltre ai voti raccolti contano gli "amici" politici disposti ad allearsi con te. Netanyahu per molti anni è stato un maestro di accordi sopra e sotto i banchi parlamentari. Non sarebbe potuto divenire il primo ministro più longevo al potere, del resto, senza questa abilità di accontentare le formazioni minori della destra religiosa e di quella nazionalista con concessioni che hanno spostato a destra tutto l’assetto politico e istituzionale d’Israele. Anche l’improvvisa dissoluzione del Parlamento testimonia la sua spregiudicatezza politica: piuttosto che – come prevedere la Costituzione – permettere al leader del partito di centrosinistra, Berry Gantz, di tentare di formare un governo diverso, egli ha preferito ributtare il Paese in una nuova campagna elettorale.
E non è detto che a settembre non riesca nuovamente a convincere elettori e alleati politici: spesso dato come sicuro perdente è finora sempre riuscito a rimanere in sella, battendo i rivali politici, talora con scarti risicatissimi. Eppure l’impressione è quella di una immagine logorata dai troppi opportunistici compromessi e dai continui scandali: la moglie ha patteggiato con la giustizia per le accuse di appropriazione di fondi pubblici, mentre su di lui gravano inchieste di corruzione che potrebbero estrometterlo definitivamente dalla scena politica.
Quale che sia il risultato della nuova consultazione è certo che per Israele si apre ora una fase di incertezza, con molti aspetti negativi. Il bilancio dello Stato è sotto pressione, con un deficit che corre verso il 4% annuo e che sarà certo impossibile ridurre durante la nuova campagna elettorale. Ma ben più del prezzo finanziario, preoccupa quello politico che Israele sta pagando per la voglia di potere e per il tentativo di sottrarsi alla giustizia di una sola persona. In questi anni, Netanyahu ha mischiato ricette populiste con l’enfatizzazione della minaccia iraniana, quasi che senza la sua guida Israele avrebbe dovuto affrontare l’annientamento.
Un’idea tecnicamente irreale per lo Stato militarmente più forte della regione (e dotato, come ambiguamente mai si nega e mai si ammette, di armi nucleari), ma che colpisce le comprensibili paure di un popolo che ha vissuto l’orrore della Shoah. Ha promosso pessime leggi, come quella che sancisce il carattere ebraico dello Stato di Israele, umiliando i milioni di arabi cristiani e musulmani che vivono nei suoi confini. Ha infine assecondato le ambizioni territoriali della destra estrema, che sogna di realizzare l’Israele biblico a spese dei palestines1i della Cisgiordania. Una deriva estremista assecondata dall’amministra- zione Trump, che da tempo millanta la preparazione di un «Accordo del secolo» fra israeliani e palestinesi.
Questi ultimi, divisi fra loro, privi di un chiaro programma politico, afflitti da leadership o violentemente estremiste o corrotte e screditate, pagheranno anch’essi il prezzo della nuova competizione elettorale, dato che la «questione palestinese» è usata cinicamente per la propaganda politica. Con il rischio concreto, a settembre, di essere nuovamente intrappolati in un Parlamento frammentato e vittima di veti incrociati e continui ricatti. Sempre che la giustizia israeliana non arrivi prima, fermando l’ennesimo ultimo giro di giostra di Netanyahu.