Caro direttore,
ho sotto gli occhi i diversi interventi pubblicati (dal 23 dicembre 2017 a fine gennaio 2018) nella rubrica “a voi la parola”, riguardanti la discussa frase del Padre Nostro: «Non ci indurre in tentazione». Ognuno dà un giudizio, propone una traduzione, suggerisce una variante, offre un adattamento... Tutti poi si appellano al Papa e alla Cei perché venga finalmente stabilita una traduzione italiana più consona e definitiva. Tra quelle presentate nei citati interventi mi sembra di poter aderire a quella di don Vincenzo Ferraris, apparsa su “Avvenire” del 23 gennaio, il quale propone: «Aiutaci a superare la tentazione».
don Emanuele Candido, Spilimbergo (Pn)
Gentile direttore,
sto seguendo con particolare interesse la discussione sull’adozione nella liturgia della nuova traduzione Cei del Padre Nostro «non abbandonarci alla tentazione» che, come scritto in diverse lettere al nostro giornale, trovo poco adeguata e ambigua. Certo più chiaro, come suggerito, mi parrebbe «non abbandonarci nella tentazione». Mi sembra però, da studioso biblista sia pur laico, più rispondente al testo originale greco, che va pur sempre rispettato, la traduzione adottata in Francia «non lasciarci entrare in tentazione e liberaci dal male» che più semplicemente in italiano, rispettando la lettera, si potrebbe tradurre «evitaci la tentazione e liberaci dal male». Personalmente preferirei che la tentazione mi fosse evitata del tutto, ma nel caso dovessi entrare in tentazione, la richiesta conclusiva e complementare «liberaci dal male» per me equivale appunto e meglio alla richiesta di «non abbandonarci» o di «aiutarci» nella tentazione, di cui altrimenti sarebbe solo una ripetizione.
Riccardo Robuschi, Milano
Gentile direttore,
ho scoperto che esiste una scuola esegetica che sostiene che il Nuovo Testamento, o almeno i Vangeli, siano stati originariamente scritti in aramaico e successivamente tradotti in greco, creando a volte qualche errore di traduzione: per esempio, non sarebbe un cammello, ma una corda, a passare per la cruna di un ago. Se è così, si potrebbe ipotizzare che la parte finale del Padre Nostro non sia un imperativo, ma un indicativo presente, dando così un più sensato «Tu, che non ci induci in tentazione, ma ci liberi dal male». Che ne pensa lei di questa ipotesi?
Diego Fiumarella, Torino
Non mi stupisco affatto delle lettere che continuano ad arrivare in redazione sulla questione della frase “penultima” del Padre Nostro. Quella che in italiano ancora suona «e non ci indurre in tentazione» e che tanto fa riflettere e discutere. Le abbiamo pubblicate il più possibile, cercando di scegliere quelle che ci sono parse più utili alla riflessione in corso, o comunque più rivelatrici della passione cristiana che anima questo tipo di dibattito, mai fine a se stesso. La preghiera che Gesù stesso ci ha insegnato non lo consente e non lo meriterebbe. Non mi stupisce neppure che qualcuno chieda addirittura il mio parere di assoluto non esperto. Un’altra piccola prova del fatto che non si tratta di un confronto accademico, ma di un pensare e pregare insieme, pieno di vita, di fede e d’amore.
Personalmente, da sempre, m’inchino al senso del Padre Nostro, che anche oggi – credo – abbiamo tutti ben chiaro e che, pure, è bene sforzarsi di rendere esplicito con parole correttamente comprensibili per gli uomini e le donne del nostro tempo. Ma soprattutto sono certo che dalla nostra Chiesa – che alla questione dedicherà, in questo 2018, un’attenzione speciale nel corso di un’Assemblea straordinaria della Cei convocata per il prossimo autunno – verrà un’indicazione capace di riscaldarci il cuore e di dare luce ai termini che usiamo e che useremo per rivolgerci al Padre seguendo l’esempio del Figlio.