Nei giorni in cui in molti trepidano per la sorte di Rossella Urru, finalmente uscita dal limbo degli ostaggi italiani pressoché dimenticati, arriva, improvvisa, la notizia dell’uccisione in Nigeria di Franco Lamolinara, ingegnere vercellese, assassinato dai rapitori durante un blitz delle forze speciali nigeriane e britanniche, che tentavano di liberare, con lui, il collega Chris McManus. Il dolore per la tragica morte del nostro connazionale e la dolente solidarietà alla famiglia, che da mesi e mesi viveva nell’angoscia, non possono fare velo ad altre amare considerazioni. Innanzitutto, in moltissimi ieri sera avranno esclamato: «C’era un italiano rapito in Nigeria da quasi un anno? Non se ne parlava mai». E così qualcuno, sempre ieri, avrà scoperto che altri nostri concittadini sono nelle mani di guerriglieri e pirati in Africa come in Asia. Non tutti i media sono distratti, certo, né tutte le istituzioni, che spesso lavorano in doveroso silenzio. Rimane però un senso di scarsa sensibilità o di intermittente (e persino selettiva) mobilitazione, che andrebbe scacciato. C’è poi il contesto: la Nigeria, gigante d’Africa, dove la violenza settaria, etnica e religiosa è piaga aperta, con i cristiani spesso vittime, senza che il problema ottenga i primi posti nelle agende di informazione e politica, se non in occasioni come questa, nella quale agiscono gli stragisti fondamentalisti di Boko Haram. Infine, ma non ultima, la questione del ritardo con cui l’Italia è stata informata del blitz, un atto grave cui il governo ha prontamente risposto, ma che lascia aperto il quesito sul nostro reale peso internazionale, anche alla luce della vicenda dei marò arrestati in India. Eppure siamo generosamente impegnati in tutte le principali crisi, in situazioni dove il confine tra pace e guerra è più che labile. Perché questi immeritati insulti? E fino a quando?