È stato un 8 marzo diverso dal solito. Meno retorico, forse, con uno sguardo più aperto e meno superficiale sui problemi reali delle donne. Con cui tutte, tutti i giorni, facciamo i conti in diversi modi: le discriminazioni striscianti negli uffici, nelle fabbriche e nei colloqui di assunzione; gli orari dilatati – utile, a questo proposito, la recente riflessione di Avvenire sulla domenica libera dal lavoro –, il doppio impegno in casa e fuori... Lasciano qualche sospetto, in verità, quelle sottolineature sulle donne da inserire in modo più massiccio nel 'mercato' del lavoro perché «capitale umano essenziale per lo sviluppo civile ed economico» e perché «riserva nascosta di crescita». Tutto vero, ovviamente, però sembra, ancora una volta, che si vogliano caricare le donne di una responsabilità troppo grande: se non lavoriamo anche fuori casa ostacoliamo lo sviluppo del Paese – e di questi tempi, lo sappiamo, la crescita economica è la scommessa numero uno. E se però lavoriamo anche fuori casa, beh, la fatica è tutta nostra. Non ci aiuta il pensiero che i congedi parentali paterni in futuro potranno essere resi obbligatori: ma non «in più» rispetto a quelli della madre, per condividere, affiancare, «stare con». Bensì per sostituire, quindi – stando alle prime ipotesi di riforma – accorciando i tempi della maternità a casa. Per non danneggiare la carriera, ci dicono, ma così non ci toglierebbero qualcosa di più importante della carriera? Perché alla fine è questo il nodo fondamentale: mettere d’accordo il lavoro e la maternità. Significative le parole del presidente Napolitano, che ha descritto con semplicità l’eterno dilemma femminile: le donne vogliono – vorrebbero – lavorare, ma «senza avere la preoccupazione costante di sacrificare il benessere dei propri figli».Dunque ben vengano i servizi – e perché, allora non partire proprio da un capitolo che un po’ latita, di questi tempi, e cioè il rilancio vigoroso degli asili nido, possibilmente a costi sopportabili? –, tante grazie ai nonni e alle nonne, «costanti dispensatrici di cure e di affetto, pronte e disponibili nelle emergenza». Ma, sebbene nelle more di una severa crisi economica, perché non parlare (ancora e di più) agli imprenditori di orari flessibili, di part-time, di avanzamenti di carriera in base al merito e alla produttività e non in base alle ore passate dietro la scrivania? Le questioni sono tante, e non tutte hanno un profilo economico.C’è, per esempio, la gravissima crisi demografica, che, ancora una volta, attende il contributo delle donne per segnare un’inversione di tendenza. Più donne occupate, ci insegnano i Paesi del Nord Europa, più figli. Le donne che non lavorano o che hanno un impiego precario non affrontano volentieri una maternità e, dice ancora Napolitano, «una comunità nazionale che non genera abbastanza figli è assimilabile a una specie in via d’estinzione, segnala un profondo malessere, una rassegnazione, in sostanza, un declino». Dunque, più lavoro alle donne, più figli, più futuro. E mentre riecheggia in testa un Messaggio dei vescovi italiani per la Giornata della vita che si intitolava proprio «Senza figli non c’è futuro» (era il 2004), pensiamo che, comunque, non può risolversi tutto in un baratto utilitaristico. È la vita delle persone, prima ancora che il destino di una nazione. Tante donne vogliono lavorare anche fuori casa, certo, ma quando a casa ci tornano, possibilmente non a notte fonda, vogliono avere la coscienza a posto. Servono il datore di lavoro con il massimo impegno. Ma servono anche la famiglia, i figli. Perché pure questa è responsabilità sociale: maggiore, forse, di quella esercitata in ufficio. Ed è vita, vita vera. A governi, imprenditori, sindacati, il dovere di spianare la strada. Per non fermarsi agli auspici di un 8 marzo.