Nei bar di Prato non si parla d’altro. Una donna adulta, sposata e già madre, intreccia una relazione con un alunno molto giovane. E dal loro rapporto, che vista l’età del ragazzo è per la legge una violenza sessuale, nasce un figlio. Già la famiglia dell’adolescente sa, già in città girano voci. Il test del Dna conferma lo scandalo ormai sussurrato: il figlio, è del ragazzino. Titoli di giornale e telecamere impazzano. Che vergogna, è il commento sulle bocche di tanti, in quelle parole a mezza voce in cui al pettegolezzo si mescola il disprezzo, e appena un po’ di compassione per l’adolescente coinvolto. Certo, che amarezza, che una madre non riconosca che quello che ha davanti è poco più che un bambino, e ne usi, magari approfittando di una sua adolescenziale infatuazione.
Per noi, qui, solo brevi in cronaca senza enfasi e lontano anni luce dai giudizi sommari. Eppure in questa mesta storia c’è un personaggio sui cui vale la pena di fermare lo sguardo, uno che non grida allo scandalo e alla vergogna. È il marito della donna, e padre del suo primo figlio. Quando il test del Dna, implacabile, conferma che il neonato non è suo, non si scompone: «Questo bambino io lo cresco da cinque mesi: è ormai, comunque, figlio mio». Un sussulto di sorpresa forse ha allora colto molti di noi e traversato la città: l’uomo poteva abbandonare la moglie, andarsene di casa, disconoscere con rabbia il nuovo nato. Tutto questo sarebbe stato, agli occhi dei più, comprensibile e giustificato. E invece, lo sconosciuto – pure ingoiando, certo, dolore – non se ne va. Resta con una donna che lo ha tradito, e in quel modo. Resta, come riconoscendo una evidenza più forte di ogni test genetico: quel bambino che credeva suo, che ha atteso per nove mesi, che forse ha preso in braccio alla nascita, bagnato ancora e fragile come un passero, quel bambino è figlio suo. Lo è non per sangue, e nemmeno per la legge che automaticamente dentro al matrimonio lo affermerebbe, ma perché per tutti questi mesi quell’uomo l’ha amato come un padre.
Negli ultimi cinque mesi anche lui si è alzato, la notte, per i pianti e i capricci, anche lui, come fanno oggi tanti giovani papà, lo ha cullato e cambiato e lavato. Perché ha sorriso nel vedere quanta fame aveva, e come cresceva; e come quegli occhi, all’inizio ancora vaganti nelle ombre di un altro misterioso mondo, col passare delle settimane si facevano attenti, riconoscevano i volti, e la bocca accennava un primo sorriso. E: «Ha sorriso, hai visto? Mi ha guardato e ha sorriso». Lo stupore della vita e la tenerezza che si saldano in un anello forte e tenace. Talmente forte, che nemmeno il dolore di sapere di non essere il padre biologico riesce a incrinarlo: per tutte quelle notti e quelle mattine e quei sorrisi e quei pianti, quello ormai è suo figlio.
In una storia triste e un po’ pruriginosa, che attrae commenti malevoli, titoloni e titolacci, è inconsueta la pacata risolutezza di un uomo che non bada alle parole, alle voci, agli sguardi per strada, e passa sopra anche alle colpe e alle vertigini della sua donna. Una generosità nuova, che appena trent’anni fa forse in Italia sarebbe stata impossibile, quando 'padri' si era solo nel sangue e nell’onore, e i figli degli adulteri erano semplicemente 'bastardi'. Bel padre quello di Prato, il solo – forse – a non gridare allo scandalo. E che sarà poi di quel bambino figlio di un altro, ma di un altro così giovane, e nei suoi pochi anni abusato? Potrà davvero essere affidato a sua madre? Ma quel padre che non bada al Dna, ma a cinque mesi di abbracci, io spero che la legge, nei suoi iter complessi e freddi, non lo escluda. Quel figlio di un altro, venuto da un tradimento e da un abuso, è invece profondamente 'figlio' in una paternità fedele, più che al sangue, all’accoglienza e all’amore.