L’inimmaginabile è accaduto: da ieri sera 60 milioni di italiani sono vincolati nei loro spostamenti; le attività di tutti i giorni (non essenziali) improvvisamente cancellate; l’intera vita quotidiana stravolta. Tutti a casa. Cinema e teatri chiusi, traffico pressoché azzerato, centri delle città semideserti. Con la chiusura del Nord di domenica 8 marzo la crisi aveva già fatto un salto di qualità. Ora siamo definitivamente entrati in un territorio ignoto che non sappiamo dove ci porterà. Anche perché è difficile, a oggi, riuscire a prevedere quando le misure straordinarie adottate dal governo potranno essere revocate. La crescita ancora molto forte delle infezioni dice che non abbiamo raggiunto il picco del contagio.
Le guarigioni aumentano, ed è necessario rimarcarlo, ma i riflettori rimangono – giustamente – tutti puntati sulle vittime. Siamo ormai a 463 morti e in alcune località la crisi sanitaria è gravissima. Gli ospedali stanno sopportando una pressione enorme. Con medici e personale paramedico che fanno letteralmente miracoli per gestire la situazione A tutti loro deve andare il nostro ringraziamento per la dedizione, il coraggio, la competenza con cui stanno operando su un fronte che diventa ogni giorno più difficile. Ma la crisi sanitaria è solo la prima stazione. Presto dovremo cominciare a fare i conti anche con le conseguenze economiche e sociali, che saranno ugualmente pesanti. È il carattere sistemico di quello che sta accadendo che preoccupa. Non c’è settore economico che ne sia al riparo. Inoltre, sappiamo già che le ripercussioni negative toccheranno sia il lato dell’offerta (ci sono problemi nelle forniture perché il contagio globale sta mettendo in crisi le catene produttive globali) sia dal lato della domanda (con il crollo dei consumi – drammatico quello del turismo – degli investimenti e dell’export, vitale per la nostra produzione). Dobbiamo prepararci fin d’ora ad affrontare una situazione che per alcuni aspetti si può paragonare a quella che gli storici chiamano “economia di guerra” (l’adattamento del sistema economico alle necessità di un momento straordinario come quello bellico). Per superare lo choc che deriverà da uno stop così repentino e trasversale ed evitare che l’epidemia virale si trasformi in macelleria sociale, il Paese ha bisogno di una politica economica straordinaria.
L’Italia ce la può fare. Ma sarà necessario che l’Europa non solo non metta ostacoli all’azione del governo (cosa che non intende fare), ma che sia anche di aiuto nel gestire le conseguenze di medio-lungo termine di questo contagio devastante (cosa che è tutta da dimostrare). La lezione di queste settimane è che rimaniamo vulnerabili. In un mondo interconnesso, basato sulla mobilità e gli scambi planetari, il contagio di un nuovo coronavirus come quello che scatena il male chiamato covid-19 colpisce al cuore il funzionamento del sistema. Non è un caso che nel mondo digitale si usi proprio lo stesso termine per indicare gli attacchi hackers. Mentre si usa l’aggettivo “virale” per dire che un video si diffonde rapidamente nella rete. Ciò significa che i sistemi ad alta connessione sono strutturalmente esposti ad attacchi “epidemici” dovuti a fattori erratici di instabilità.
Una delle dimensioni della sostenibilità è dunque quella della resilienza. Occorre lavorare per rendere le nostra società e la nostra economia più capaci di resistere agli choc. Se questo è vero, allora, al di là della necessaria flessibilità di bilancio, si tratta di equilibrare le esigenze immediate di protezione (cassa integrazione), con quelle di medio termine di prevenzione (ricerca scientifica), e preparazione (investimento nei sistemi sanitari), senza dimenticare di avviare da subito politiche di trasformazione (rientro delle produzioni dall’Asia, aumento dello smart working e dell’economia verde).
È un momento gravido. In cui ci sente la precarietà di tutto e dove prevale l’incertezza sul futuro. Ma dove, proprio per questo, dobbiamo coltivare la speranza di nuove soluzioni, di nuove idee, di nuovi modi di vivere. E proprio qui sta il punto. Qualche secolo fa, Thomas Hobbes, il fondatore della filosofia politica moderna, ha profetizzato che nei momenti di destrutturazione dell’ordine sociale si scatena la lotta di tutti contro tutti. L’accaparramento del cibo nei supermercati, la speculazione sul prezzo delle mascherine; le vendite irresponsabili sui mercati finanziari, i sovranismi sanitari di questi giorni sono tutti sintomi, per ora ancora marginali, di tale tendenza. Ma sarebbe grave sottovalutarli. Dobbiamo fermare il contagio. Ma dobbiamo anche fare in modo che la grave crisi nella quale siamo immersi non solo non ci travolga, ma si possa trasformare in occasione di quella profonda rigenerazione di cui la nostra società ha da tempo bisogno. Perché ciò sia possibile è necessario rispettare almeno due condizioni. Primo: che riconosciamo l’importanza del principio di autorità. La crisi va gestita seguendo le indicazioni di chi ha la responsabilità istituzionale e si avvale dei consigli degli esperti.
Basta con le polemiche stupide e fuori posto. Si deve pretendere una moratoria politico- comunicativa. In giorni come questi, tutto lo sforzo vada a curare gli ammalati, a spegnere i focolai, a dare indicazioni chiare e coerenti alle persone, a impostare le nuove linee del nostro futuro comune. Secondo: il contagio e le sue conseguenze possono essere battuti – come su queste pagine si fa ripetendo sin dal primissimo inizio della crisi da coronavirus – solo grazie alla responsabilità di tutti. Responsabilità è parola desueta. Che suona retorica, forse addirittura vuota. Ma mai come in questi giorni possiamo tornare a capire che siamo davvero tutti connessi. E che di conseguenza il comportamento di ciascuno può fare la differenza. Per sé e per gli altri. In fondo, è propria la personale responsabilità l’ultima e definitiva barriera che può permettere di fermare il virus. Ma anche la prima e solida condizione per ricostruire il nostro futuro.