È fallito il golpe del calcio ma non dormiamoci su
venerdì 23 aprile 2021

Ora che il golpe pare fallito, può essere utile rimettere la palla al centro. Senza far credere alla gente però che di colpo quella stessa palla sia diventata quadrata. E che gli Agnelli sacrificati sull’altare di una figuraccia epocale siano peggio degli altri carnefici del calcio, proprio quelli cioè che oggi sembrano averlo salvato da una fine orrida e classista. Perché molte cose ha insegnato questo maldestro tentativo di creare una Superlega di pochi a dispetto dei molti.

La prima è che qualcuno evidentemente ancora credeva che il calcio di vertice fosse un prato fiorito, dove i valori dello sport germogliassero intonsi, prima che all’improvviso un manipolo di presidenti avidi arrivasse con la falciatrice per tentare di radere l’erba della passione tifosa. A costoro sarebbe giusto il caso di ricordare che il denaro ha spostato i pali delle porte ben prima di tre giorni fa. E che l’Uefa che oggi si è eretta a custode degli inalienabili diritti dei club apparentemente più poveri e meno 'nobili', è la stessa che nel 1992 ha cambiato il nome della Coppa dei Campioni in Champions League, distruggendone la formula e trasformandola di fatto già allora in una Superlega.

È la stessa che tre anni prima aveva deciso di riservarne l’accesso solo ai vincitori dei 24 campionati principali sbattendo in un torneo minore chi conquistava lo scudetto in Lussemburgo o in Albania: e se qualcuno avesse voluto alzare un sopracciglio, muto e pedalare. È la stessa Uefa, soprattutto, che impose che si giocassero, comunque e regolarmente, le partite la sera dell’11 settembre 2001, mentre il mondo piangeva migliaia di morti e feriti.

Ed è la stessa che, ormai una vita geologica fa, decise di trasmettere le sfide europee in diretta solo a pagamento: sembrò un’innovazione, invece era il primo nodo del cappio intorno al collo. È stato allora che il calcio si è avviato a diventare uno spettacolo puramente televisivo, privato di tutti i suoi elementi rituali, simbolici, sentimentali, irrazionali. Da quel momento l’industria del pallone è diventata multinazionale, con regole di bilancio aggirabili in nome della popolarità e dell’indispensabilità: è vergognoso così che Ronaldo – anche quello relativamente imbolsito di oggi – guadagni 31 milioni l’anno (cioè 3.540 euro l’ora), ma è fatale che accada se è il tifoso a pretendere Ronaldo in squadra, perché senza di lui l’abbonamento alla pay-tv non lo fa.

Così, spogliato dall’apporto dell’appassionato allo stadio, e sostituito da un telespettatore drogato dal telecomando, il pallone è finito per confondersi con un qualsiasi contenitore di (mediocre) qualità e (grande) successo tv, perdendo la sua fondamentale funzione sociale di sport nazional- popolare, unificante, interclassista, che vedeva insieme allo stadio, fianco a fianco, il borghese e il proletario. Pandemia a parte, sugli spalti oggi ci vanno appena gli ultrà e il tifoso senza decoder che può permettersi solo un posto (caro, peraltro) al freddo e dietro la rete. Il pallone insomma non è finito quando un manipolo di padroni di club spinti dalla bulimia di incassi che l’Uefa trattiene in gran parte per sé e da bilanci drammaticamente in passivo hanno provato ad assaltare la diligenza, ma quando l’Inter è scesa in campo con la maglia verde e la Juventus con quella arancione, spiazzando logica, senso del ridicolo e tradizione.

O quando in campionato la partita inizia a mezzogiorno per infilarne una in più nel palinsesto. Oppure quando in pieno Covid nessuno poteva mettere il naso fuori dalla porta, ma il pallone di Serie A rotolava bellamente, con i giocatori che sputavano sull’erba e i presidenti – anche quelli esclusi dall’élite e che solo per questo si sono indignati oggi – litigavano sui diritti tv contendendosi euri e dignità. Già, perché le verginelle alla fine si sono rivelate per quelle che erano. Mentre i tifosi si illudono di aver vinto la battaglia contro i prepotenti oligarchi dello 'ius bachechae', il calcio ora tornerà ad essere quello di prima. Un carrozzone sbilenco, dove un mito come Paolo Maldini oggi si scusa del fatto che la sua società fosse tra le 12 scissioniste, precisando che lui non ne sapeva nulla.

Peccato Maldini del Milan sia il direttore tecnico, non l’usciere della sede di un club che – come molti altri – ha padroni stranieri che abitano e orchestrano tutto a migliaia di chilometri di distanza dagli spogliatoi delle loro squadre. E questo fa comprendere molte cose. Oltre a confermare l’impressione che ci riproveranno, loro o altri, magari gli stessi fustigatori di oggi che il golpe – possibilmente organizzato meglio – non potevano ancora permetterselo. Non dormiamoci su.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI