Forse le regole del 'gioco' sono cambiate e noi fatichiamo ad accorgercene. Oppure è mancata quella determinazione che durante i due conflitti mondiali del Novecento aveva sospeso l’assegnazione del premio, non essendoci praticamente candidati in possesso dei giusti requisiti. Sta di fatto che il Nobel per la Pace assegnato ieri dal Comitato norvegese all’Unione Europea ci lascia – non sappiamo bene perché – un leggero sapore di amaro in bocca, nonostante lo strepitante orgoglio che in queste ore si leva da tutte le cancellerie del Vecchio Continente.
In effetti le voci discordanti sono poche, esili, sopraffatte dal legittimo tripudio per la motivazione, che certamente è inoppugnabile: «L’Unione e i suoi membri per oltre sei decenni hanno contribuito al progresso della pace e della riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani in Europa ». È tutto vero. Buona parte del mezzo miliardo di cittadini della Ue è nata è cresciuta in un’Europa ormai pacificata, dove l’ottimismo della concordia e della crescita economica, del benessere e della sicurezza avevano preso il posto dell’incertezza del domani, della tragedia della guerra, della morsa spietata delle dittature. Forse oggi si rischia di non farci più caso, ma quelle frontiere – pensiamo al confine che corre dall’Alsazia al Belgio e che per secoli fu teatro di guerre sanguinose fra Francia e Germania, all’Oder-Neisse fra Germania e Polonia, al Muro stesso che divideva Berlino e lacerava il Paese sconfitto in due Germanie impenetrabili – che oggi si possono percorrere e attraversare senza timore, senza dogane, senza barriere né cortine di ferro sono una smagliante conquista dell’Europa e dei suoi padri fondatori, ai quali è impossibile e sarebbe insensato negare la nostra gratitudine.
Perché, dunque la nostra titubanza? Perché questo Premio Nobel è un premio al passato. O forse al futuro. Un passato ben noto, e dunque un premio alla memoria. Nel presente, con le sue contingenze, i suoi egoismi, le migliaia di profughi che gremiscono – e sovente muoiono – i confini meridionali dell’Europa, le sue guerre in corso (non ultima quella dell’euro), le occasioni mancate perché da conflitti diventassero motivi di pace, l’Unione Europea non brilla certo per sagacia, né per unità d’intenti. La stessa istituzione nel 2009 di un Alto Commissariato per gli Affari esteri presieduto dalla baronessa Catherine Ashton non pare finora aver lasciato tracce tangibili di un’azione diplomatica degna dell’alto riconoscimento voluto nel 1895 da Alfred Nobel.
Più che al presente dunque, il Premio è costretto a guardare al passato. E, poi, di slancio al futuro anteriore. A ciò che sarà, probabilmente,. sperabilmente di quest’Europa che sarà anche e davvero politica prima o poi. Con i rischi che ciò comporta e che i membri del Comitato dovrebbero aver compulsato: come dimenticare quella frettolosa e discussa assegnazione nel 2009 a Barack Obama, con due 'guerre americane' in corso e poco più tardi i prodromi dell’intervento in Libia?A indirizzare i giurati verso il riconoscimento alla Ue è stata verosimilmente la filigrana sottile che va da Erasmo da Rotterdam a Rousseau e di cui l’architettura comunitaria fin dalle sue origini si nutre, quell’ottimismo che nel 1795, all’indomani della Pace di Basilea, indusse Immanuel Kant a stendere quel
Progetto per una pace perpetua, ultima fra le tante utopie che l’Europa ha saputo produrre. Eppure questo Premio ha soprattutto il sapore di un auspicio, di un incoraggiamento verso una maggiore coesione europea. Un po’ poco, rispetto a certe scelte del passato. E ancora meno di fronte alle tante sfide del futuro. Post Scriptum. Pare che a Bruxelles sia già in corso una piccola guerra intereuropea per decidere chi andrà a Oslo a ritirare materialmente il Premio Nobel per la Pace: Barroso, Van Rompuy o il presidente dell’Europarlamento Schulz? Chi è capace di stupirsene alzi la mano.