sabato 13 ottobre 2012
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Forse le regole del 'gioco' sono cambiate e noi fatichiamo ad accorgercene. Oppure è man­cata quella determinazione che durante i due conflitti mondiali del Novecento aveva sospeso l’assegnazione del premio, non essendoci prati­camente candidati in possesso dei giusti requisi­ti. Sta di fatto che il Nobel per la Pace assegnato ieri dal Comitato norvegese all’Unione Europea ci lascia – non sappiamo bene perché – un leggero sapore di amaro in bocca, nonostante lo strepi­tante orgoglio che in queste ore si leva da tutte le cancellerie del Vecchio Continente. In effetti le voci discordanti sono poche, esili, so­praffatte dal legittimo tripudio per la motivazio­ne, che certamente è inoppugnabile: «L’Unione e i suoi membri per oltre sei decenni hanno con­tribuito al progresso della pace e della riconcilia­zione, della democrazia e dei diritti umani in Eu­ropa ». È tutto vero. Buona parte del mezzo mi­liardo di cittadini della Ue è nata è cresciuta in un’Europa ormai pacificata, dove l’ottimismo del­la concordia e della crescita economica, del be­nessere e della sicurezza avevano preso il posto dell’incertezza del domani, della tragedia della guerra, della morsa spietata delle dittature. For­se oggi si rischia di non farci più caso, ma quelle frontiere – pensiamo al confine che corre dall’Al­sazia al Belgio e che per secoli fu teatro di guerre sanguinose fra Francia e Germania, all’Oder-Neis­se fra Germania e Polonia, al Muro stesso che di­videva Berlino e lacerava il Paese sconfitto in due Germanie impenetrabili – che oggi si possono percorrere e attraversare senza timore, senza do­gane, senza barriere né cortine di ferro sono una smagliante conquista dell’Europa e dei suoi pa­dri fondatori, ai quali è impossibile e sarebbe in­sensato negare la nostra gratitudine. Perché, dunque la nostra titubanza? Perché que­sto Premio Nobel è un premio al passato. O forse al futuro. Un passato ben noto, e dunque un pre­mio alla memoria. Nel presente, con le sue con­tingenze, i suoi egoismi, le migliaia di profughi che gremiscono – e sovente muoiono – i confini meridionali dell’Europa, le sue guerre in corso (non ultima quella dell’euro), le occasioni man­cate perché da conflitti diventassero motivi di pa­ce, l’Unione Europea non brilla certo per sagacia, né per unità d’intenti. La stessa istituzione nel 2009 di un Alto Commissariato per gli Affari e­steri presieduto dalla baronessa Catherine Ash­ton non pare finora aver lasciato tracce tangibili di un’azione diplomatica degna dell’alto ricono­scimento voluto nel 1895 da Alfred Nobel. Più che al presente dunque, il Premio è costret­to a guardare al passato. E, poi, di slancio al fu­turo anteriore. A ciò che sarà, probabilmente,. sperabilmente di quest’Europa che sarà anche e davvero politica prima o poi. Con i rischi che ciò comporta e che i membri del Comitato dovreb­bero aver compulsato: come dimenticare quel­la frettolosa e discussa assegnazione nel 2009 a Barack Obama, con due 'guerre americane' in corso e poco più tardi i prodromi dell’interven­to in Libia?A indirizzare i giurati verso il riconoscimento al­la Ue è stata verosimilmente la filigrana sottile che va da Erasmo da Rotterdam a Rousseau e di cui l’architettura comunitaria fin dalle sue origi­ni si nutre, quell’ottimismo che nel 1795, all’in­domani della Pace di Basilea, indusse Immanuel Kant a stendere quel Progetto per una pace per­petua, ultima fra le tante utopie che l’Europa ha saputo produrre. Eppure questo Premio ha so­prattutto il sapore di un auspicio, di un incorag­giamento verso una maggiore coesione europea. Un po’ poco, rispetto a certe scelte del passato. E ancora meno di fronte alle tante sfide del futuro. Post Scriptum. Pare che a Bruxelles sia già in cor­so una piccola guerra intereuropea per decidere chi andrà a Oslo a ritirare materialmente il Pre­mio Nobel per la Pace: Barroso, Van Rompuy o il presidente dell’Europarlamento Schulz? Chi è ca­pace di stupirsene alzi la mano.
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