L’Europa è stato il continente più bellicoso della storia umana. Dalla metà del 1900 improvvisamente è stato il più pacifico.
È passato dalla quasi completa distruzione dopo la Seconda guerra mondiale, alla prosperità grazie alla cessazione delle ostilità tra gli Stati membri dell’Unione.
Diverse generazioni, a cominciare dalla mia, sono nate e cresciute in un’area al riparo dalle guerre. È stata la normalità che non ha avuto bisogno di chiamare con la parola pace. Questa parola, pace, è affiorata alle labbra, ai gridi, alla scrittura al momento del ritorno in Europa, ai confini dell’Unione Europea, della parola guerra.
C’era già stato conflitto con lo smembramento armato della Federazione Jugoslava negli anni Novanta. Poi il Kosovo e i bombardamenti della Nato su Belgrado avevano sigillato il 1900, secolo di guerre mondiali. Erano però scontri regionali che non compromettevano la tranquillità del continente che continuava a prosperare illeso.
L’invasione russa dell’Ucraina ha riportato l’Europa al suo passato, al 1900 delle battaglie dentro le città sventrate e svuotate, dei profughi a milioni.
La parola guerra esige l’esclusiva. Quando è in azione, ogni altra si riduce a bisbiglio. Deve fare il suo corso fino a esaurimento delle possibilità, prima di finire. Perché le guerre finiscono, tutte.
Mi sono infilato in queste macerie europee come autista di convogli umanitari, dalla Bosnia degli anni Novanta in poi. Questi soccorsi alle popolazioni, questi gesti di pace producevano il prodigio di sospendere la guerra per la breve durata dell’intervento.
La sospensione smentiva la guerra, toglieva l’esclusiva alle armi.
Quei gesti di pace introducevano l’intermittenza di un singhiozzo in mezzo alle rovine. Creavano un non dichiarato “cessate il fuoco” di una distribuzione di viveri in un campo profughi.
Un solo ricordo: i ciliegi di maggio intorno a Mostar, carichi di frutti impossibili da cogliere a causa delle mine seminate nei campi. I bambini più agili e magri sfidavano con il loro peso minimo le spolette esplosive nascoste sotto i loro piedi scalzi. Poi vendevano quelle ciliegie.
Quello era il loro gesto di pace. Incrociava il nostro di passaggio. Entrambi comportavano rischi.
La pace è parola bisognosa di opere. Non sta nelle diplomazie, nei tavoli delle opposte ragioni. Sta nelle continue piccole interruzioni delle ostilità, nelle sette opere di misericordia della fraternità. Fanno da singhiozzo che interrompe il respiro della guerra, con la volontà opposta che sa di prevalere. Perché le guerre finiscono, tutte.
Lontano dai campi di battaglia, in terra umbra, intorno alla francescana Assisi, persone di buona volontà battono con i passi di una marcia e con le labbra le due sillabe della parola pace. È la diretta discendente, la legittima erede della parola guerra.
Il nome Salomone/ Shlomo è composto sulla parola pace dell’Ebraico. Shlomo è l’erede al trono, figlio di David, re di innumerevoli battaglie. Quando David decide di costruire in Gerusalemme il tempio per la divinità, non gli è permesso, perché è stato uomo di guerra. Lo potrà erigere suo figlio, Shlomo, pace. A lui spetta l’opera che edifica dopo le distruzioni.
Chi in tempo di guerra ribatte a oltranza le due sillabe della parola pace, la costruirà, come un edificio.