Una Manovra che doveva essere «di transizione» è divenuta, nei fatti, rivelatrice di una traslazione politica già in atto nel governo e nel suo partito-motrice, Fratelli d’Italia. La lunga attesa degli emendamenti dell’esecutivo alla legge di bilancio, strettamente legata al negoziato informale con la Commissione Ue sulle misure considerate «critiche», è culminata in una sostanziale retromarcia del governo Meloni su diversi degli interventi che Bruxelles riteneva in contraddizione sia con le Raccomandazioni “storiche” fornite all’Italia sia con gli impegni sottoscritti nel Pnrr. Il passo indietro sul Pos, e quindi il mantenimento del precedente regime di multe e sanzioni a chi si sottrae al dovere di accettare pagamenti digitali, esprime qualcosa che va oltre la narrazione semplificata del braccio di ferro tra istituzioni europee e nazionali.
I livelli di analisi sono almeno quattro. Il primo, quasi scontato, è la conferma che, alla prova del governo, leader e formazioni politiche arrivano alla medesima, stabile conclusione, che prescinde e supera ogni premessa ideologica: meglio con l’Europa che senza l’Europa. E specie in una fase del genere, sarebbe stato controproducente oltre che irresponsabile aggiungere ai problemi del Paese anche nuove e gratuite fibrillazioni sui mercati. Far salire lo spread per una misurabandierina non conveniva a nessuno.
Il secondo livello di analisi riguarda l’ineluttabilità delle strade che portano verso il futuro: il contrasto all’evasione, così come la transizione energetica, non sono più opzioni tra le varie disponibili nel mercato elettorale, non sono più orizzonti “negoziabili” o programmi contraibili, sono ormai rotte necessarie (con margini ridotti di modulabilità) che non possono essere annullate per pagare pegni con categorie e interessi specifici o magari per accontentare un alleato politico che fa le bizze.
Il terzo livello di analisi è, semplicemente, l’ennesima riprova dello iato che esiste, sempre e per qualsiasi coalizione mandata dagli elettori a governare, tra le roboanti affermazioni elettorali e il giorno per giorno della cosa pubblica: la Meloni che annunciava la «fine della pacchia» per l’Europa a metà settembre, a pochi giorni dalle urne, già sapeva che a Bruxelles avrebbe dovuto vestirsi di pragmaticità per trattare, incassare (il via libera generale alla Manovra) e cedere (ciò che sfidava il buon senso).
Non lo sapevano, forse, molti dei suoi elettori, cui dovrà raccontare i motivi della rapida evoluzione. E che dovrà ora preparare ad altre evoluzioni trattativiste, anche su dossier identitari, come quello delle migrazioni.
E qui si arriva al quarto livello di analisi. Il passo indietro su Pos ed evasione è avvenuto senza levate di scudi, barricate e toni da guerriglia con le istituzioni comunitarie. Anzi, la rinuncia a misure-simbolo della prima versione della Manovra è arrivata con serafico senso di accettazione. Un dato emotivo che dovrebbe incuriosire. Certo, c’è qualche mugugno nella Lega e in Forza Italia, per motivi diversi e complementari. Ma nulla di trascendentale. Segno di un processo politico più profondo che ha preceduto e preparato le retromarce. E che guarda alle prossime elezioni europee del 2024.
Meloni dopo aver varcato la soglia di Palazzo Chigi vuole entrare, anche da presidente dell’europartito Conservatore, nella plancia di comando di Bruxelles, ma per riuscirci ha bisogno di risultare più affidabile, agli occhi dei Popolari europei, dei loro attuali alleati Socialisti (tra l’altro in un pessimo momento storico-politico). Il pragmatismo, insomma, potrebbe avere un fine che val bene la norma sul Pos. Certo, c’è da chiedersi cosa resti del destracentro all’italiana nel momento in cui si rinunciasse definitivamente alla sfida permanente all’“Europa dei burocrati”, che della stagione nazional-sovranista di Meloni e Salvini ha rappresentato il contenuto fondamentale.
E da questa domanda nascono motivi di preoccupazione: perché deposta l’ascia con Bruxelles, premier e alleati potrebbero ritenere di salvare il proprio tratto identitario andandoci ancora più duro, sul fronte interno, con gli immigrati o con i percettori del Reddito di cittadinanza, bersaglio preferito di questi primi mesi di governo – con gli ultimi emendamenti alla Manovra, per fare cassa, il taglio del sussidio per i poveri definiti “occupabili” arriverà prima, non tra 8 ma tra 7 mesi, e non c’è ancora un’ipotesi su cosa nel 2024 sostituirà, per tutti, il Rdc. Ma sarebbe una tattica di cortissimo respiro e alla lunga ingestibile. Perché lasciare oltre 800mila cittadini quasi subito e diversi milioni tra un anno senza il necessario per vivere non può che nuocere al governo che se ne rendesse responsabile. E quindi, anche su questi dossier, evoluzioni attendensi (probabili e auspicabili).