Uno dei punti deboli del nascente governo giallo-rosso è certamente quello di essere seriamente scoperto sul 'fronte del Nord', dato che le forze politiche che lo compongono hanno riscosso i loro consensi soprattutto al Sud e al Centro e che la parte più avanzata e produttiva del Paese appare, in maggioranza (relativa) schierata all’opposizione, di marca leghista o quantomeno di centrodestra. La questione delle autonomie territoriali (Comuni, Province e Regioni) assume uno speciale rilievo sia per questo dato politico sia per una questione più istituzionale. Infatti, molti dossier sono aperti sul fronte delle autonomie. Esse erano state valorizzate dalla riforma del Titolo V della Costituzione – ormai maggiorenne, ma svuotata di tutta la sua carica propulsiva – che era finalizzata, in fondo, a 'liberare le energie della nazione', per riprendere il linguaggio di don Sturzo. Energie che, complice la crisi economica post-2001, sono state invece ingessate in un’ambigua stagione segnata da spesso inefficace gestione regionale e da un sempre più marcato neocentralismo. Nella scorsa legislatura e nei primi mesi di quella attuale, la questione delle autonomie è stata sul tavolo della politica da un solo punto di vista: quello della concessione di una autonomia più ampia – e quindi differenziata – a tre Regioni del nord (Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia), che ne avevano fatto richiesta sulla base di una disposizione costituzionale (l’art. 116, 3° comma).
Si tratta di una questione di grande rilevanza, in quanto permette di rispondere alle domande di autonomia dei territori che sono più pronti a cogliere la sfida dell’autogoverno e delle domande sociali ivi emergenti. E che recava in sé pericolose insidie: in particolare il presidente veneto Zaia non aveva esitato a cavalcare – nella legislatura precedente - la questione dell’indipendentismo (una legge sulla convocazione di un quesito referendario sull’indipendenza del Veneto fu approvata nel 2014 dal Consiglio regionale) o quella del trattenimento a livello locale dei nove decimi del gettito fiscale percepito sul territorio regionale. Entrambe queste suggestioni – sicuramente eversive dell’unità nazionale, sia pur in modi diversi – sono scomparse dal tavolo dei negoziati. Che tuttavia è rimasto condizionato da quegli spettri, anche per le reazioni della classe politica e degli intellettuali meridionali. Il nascente governo giallo-rosso dovrà chiedersi cosa dire su questo punto al Paese, e in particolare al Nord.
E considerato che il tema dell’autonomia era presente anche fra i fantomatici dieci punti con cui il Movimento 5 Stelle si è presentato alla trattativa con il Pd, forse vale la pena di ragionare sulla prospettiva da assumere. Ad avviso di chi scrive, si dovrebbe cercare una terza via fra l’immobilismo pseudo- meridionalista (che vede qualsiasi incremento dell’autonomia – non solo quella differenziata – come una minaccia di sottrazione di risorse al Sud) e la concentrazione della scommessa autonomistica solo sulla differenziazione di cui all’art. 116, terzo comma. È tutto il cantiere delle autonomie che deve ripartire, al servizio di una unità della Repubblica non concepita come 'centralismo'. E sarebbe importante se fosse sviluppato in tal senso il punto 17 della bozza di programma M5s-Pd (intitolato alla 'autonomia differenziata' nella segno della «solidarietà » e della «coesione nazionale» già richiamate dallo stesso premier incaricato Giuseppe Conte). Dopo dieci anni di silenzio, andrebbe forse ripreso il tema generale del finanziamento delle funzioni di tutti gli Enti locali, un tempo chiamato 'federalismo fiscale' e poi abbandonato a causa della crisi economica.
Le funzioni fondamentali degli Enti territoriali autonomi sono inoltre ferme agli anni Novanta e alle riforme Bassanini, mentre è sempre mancata una loro rilettura alla luce della riforma costituzionale del 2001. Il ruolo delle Province è rimasto sospeso, dopo la riforma Delrio, che si era mossa nella prospettiva della abolizione costituzionale di questi Enti con la riforma Renzi-Boschi, poi affondata nel referendum del 2016. Insomma, il discorso sulle autonomie deve ritrovare una prospettiva globale e non può ripartire solo sulla differenziazione per Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia. Ma la stessa questione della differenziazione, una volta depurata di richieste poco ragionevoli (come la devoluzione alle Regioni di porti, aeroporti e autostrade, che ben pochi benefici apporterebbe alle popolazioni locali), non va archiviata a cuor leggero. Non solo perché la sperimentazione da parte delle Regioni più avanzate può essere di aiuto a tutte le altre. Ma anche in quanto vi è il rischio che qualcuno scelga la spericolata strada di cavalcare tigri indipendentiste, alla maniera catalana e scozzese. Con danni per tutti. L’autonomia differenziata, fra tante cose, era stata un modo per seppellire sobriamente questo discorso. Nessuno può auspicarne una risurrezione: l’agenda è già ingombra di troppi altri temi, seri e meno seri.