giovedì 18 novembre 2010
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Sappiamo bene che criticare un "mostro sacro" è una partita a perdere, ma si potrà pure dissentire con Roberto Saviano senza passare per camorristi, fascisti o disfattisti. Se un intellettuale, nel caso uno scrittore coraggioso, vuole vestire i panni del maître à penser televisivo, del faro che illumina le coscienze, sa di dover fare i conti non solo con il mezzo, ma anche con i telespettatori. Milioni di persone diverse, ognuna con una sensibilità propria eppure tutte con un mondo di valori di riferimento dall’inevitabile base comune: la vita e la morte non tollerano giochi di parole ed esercizi concettuali spericolati e irrispettosi. E qui ci permettiamo di inserire il rammarico: argomentare contro le mafie di ogni colore è un grande merito civile che unisce il Paese, tirare conclusioni politiche è un esercizio di libertà (e chi lo compie dovrebbe sapere di poter essere chiamato a renderne conto), ma schierarsi a favore del suicidio assistito e dell’eutanasia è un azzardo che come minimo squassa le coscienze e divide il popolo. Noi sappiamo solo in parte – per quel po’ che ci hanno fatto sapere – che cosa hanno pensato e patito le migliaia di donne e uomini in carne e ossa che tutti i giorni accudiscono in famiglia un malato terminale o un grave disabile senza risparmio di energie, sentimenti e risorse finanziarie, nel sentirsi dire con la forza della parola televisiva che quella vita lì, proprio quella, non è degna di essere vissuta.Lunedì sera, a "Vieni via con me", è andata in scena una pagina sconcertante di quella «dittatura dei sentimenti» che sembra ormai voler legittimare ogni tragitto individuale e anche ogni scelta estrema, fuori da un contesto comunitario, al di là del sentire comune, persino oltre i confini della razionalità umana. Ragione umana che viene invocata per opporsi alle mafie, ma non viene messa in campo se è in gioco la vita di un essere umano nella condizione di massima fragilità. Saviano, con la sua performance, si è reso colpevole del più grave degli addebiti che si possano avanzare nei confronti di un cultore della laicità: ha eliminato con un tratto di penna la cultura del dubbio. Secoli di severa laicità, di continuo sbattuta in faccia ai credenti, bruciati in pochi minuti. Così Saviano ha mostrato all’improvviso il volto del moderno giacobino che oscura la ragione: «Quella di Piergiorgio Welby non era più vita». Ecco, questo nostro tempo è pieno di tradimenti della ragione e ci dispiace scoprire che l’ implacabile accusatore dei più feroci camorristi non si faccia scrupolo nel liquidare ferocemente una vita, nascondendosi dietro l’idolo assoluto della libertà senza vincoli di solidarietà. Sino al punto di suggerire a tanti altri, uomini e donne, di seguire la strada che porta al darsi e al dare la morte.Lo rimbeccano i dati di realtà, che tradiscono meno degli intellettuali: dopo i drammi di Eluana Englaro e di Piergiorgio Welby, abbiamo assistito a un solo caso di suicidio assistito, con una donna italiana accompagnata a morte in Olanda. Eppure ci è toccato ascoltare, dalla voce di Saviano, la "certificazione" (già tentata in tv da altri) che negli ospedali italiani, con una manciata di euro, è possibile effettuare un’eutanasia. Lui che è un professionista della legalità (e non è il solo) perché non fa denuncia alla magistratura? Forse condivide questa scorciatoia, e tacita la coscienza? Come può chiedere ai taglieggiati di ribellarsi alle mafie se spinge, lui, a calpestare la legge dello Stato che non consente eutanasia né suicidio assistito e persegue chi li favorisce con il reato di omicidio del consenziente? Ci sono leggi che secondo il maestro Saviano, e con lui Fazio, il campione dei sornioni, si possono violare senza pagare dazio? Che differenza c’è fra loro e quanti cercano leggi "ad personam", o giustificano chi non si sottomette alla legge?La coscienza, Saviano pretende a suo modo di insegnarlo, è un tempio interiore da salvaguardare. Ma lo è sempre, sia dinanzi alla mano omicida del camorrista sia dinanzi a quella che si erge, presuntuosa e autoritaria, ad affamare e assetare l’inerme. Uno come noi e come lui. O no?
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