Siamo soliti dare la colpa di quel fenomeno che chiamiamo populismo all’ignoranza e alla manipolazione dei media. Ma forse dovremmo riflettere sul fatto che alla radice della crescente insoddisfazione popolare c’è un fenomeno assolutamente reale e non virtuale, quello di diseguaglianze inaccettabili e crescenti.
Il rapporto Oxfam (pubblicato come di consuetudine in contemporanea al Forum di Davos) ancora una volta ci aiuta a riflettere sul problema. I lettori di questo giornale ne conoscono già contenuti e anche il titolo, che è decisamente eloquente: “La diseguaglianza non conosce crisi”. I dati indicano, infatti, che le diseguaglianze continuano a crescere perché l’aumento di ricchezza generato nell’ultimo biennio (dal Covid in poi) è andato per quasi due terzi (il 63%) all’1% più ricco della popolazione mondiale e solo per il terzo rimanente alla stragrande maggioranza (il 99%) dei restanti abitanti del pianeta. Guardando in particolare al nostro Paese colpisce il raddoppio in 16 anni delle persone con un reddito inferiore ai 1.000 euro mensili e i due milioni di famiglie in povertà assoluta.
Questa fotografia ci conferma che abbiamo costruito un sistema economico straordinario nel creare ricchezza, ma pessimo nel distribuirla equamente. E qui è bene chiarire subito una questione. Ritenere, come pensano alcuni, che il sistema economico abbia bisogno di disuguaglianze anche enormi e che non possa esistere sviluppo senza di esse è una gigantesca sciocchezza. È vero il contrario: le diseguaglianze crescenti alimentano scontento, rabbia e populismi e minano alle basi le democrazie (gli assalti di Capitol Hill e di Brasilia sono campanelli d’allarme da non trascurare).
I dati della European Social Survey, elaborati in un recente lavoro curato da chi scrive questre note, suggeriscono che in Europa negli ultimi dieci anni circa un quarto dei cittadini non hanno votato e più della metà si sentono lontani e non rappresentati dai partiti attuali. La caratteristica di queste persone è basso reddito e bassi livelli d’istruzione, un altro dato che impressiona è che le due maggiori crisi finanziarie del secolo scorso (1929 e 2007) sono occorse in corrispondenza dei picchi più elevati di diseguaglianza negli Stati Uniti d0’America. Non si tratta di un caso, perché i sistemi economici hanno bisogno di consumi di massa e quando le diseguaglianze sono molto forti per puntellarli si ricorre ad artifici finanziari (ricordiamoci dei mutui subprime…) che mettono a rischio la stabilità del sistema stesso.
Gli studi scientifici su soddisfazione di vita e diseguaglianze ci dicono anche che la diseguaglianza è come il colesterolo. C’è una diseguaglianza “buona”, che è rappresentata dalla differenza di risultati che dipende dal nostro impegno e che le persone accettano. C’è una diseguaglianza “cattiva” che appare immodificabile ai nostri sforzi, per la quale l’ascensore sociale non funziona e che produce profonda infelicità. Non a caso il modello del “sogno americano” è stato costruito e promosso proprio per alimentare una percezione di mobilità sociale e ridurre l’ostilità contro le diseguaglianze. Ma quando la favola di chi ce la fa racconta una storia molto diversa dalla realtà tutto questo non basta.
Delle diseguaglianze sappiamo ormai tutto e abbiamo a disposizione le medicine necessarie per curarle. Fondamentale, come sottolinea il lavoro recente del Forum Diseguaglianze e Diversità, intervenire non solo sulla diseguaglianza ex post attraverso la progressività fiscale, ma anche per ridurre la diseguaglianza ex ante, quella che si cristallizza nei redditi prima dell’imposizione fiscale. Le leve fondamentali sono l’accesso universale all’istruzione e alla formazione permanente (che deve diventare un diritto anche per chi già lavora) e l’accesso universale alla sanità.
Importante è intervenire sul nostro Sistema sanitario nazionale, un baluardo fondamentale ma oggi sotto stress e non più in grado di ridurre le diseguaglianze. Basti considerare il fenomeno crescente delle migrazioni sanitarie e la differenza di aspettativa di vita per livello d’istruzione e luogo di residenza che può arrivare fino ad 8 anni. Un altro punto chiave se vogliamo curare la diseguaglianza ex ante è la biodiversità d’impresa. Il modello economico dell’impresa che massimizza il profitto “non importa come” e non si cura della sostenibilità sociale e la dignità del lavoro è anche un modello che produce “valore di serie B”, ovvero valore distribuito in modo molto diseguale nel momento in cui viene prodotto, valore che non resiste sul territorio e nel tempo, fuggendo nei paradisi fiscali o venendo bruciato da crisi finanziarie.
L’economia civile, la responsabilità sociale d’impresa e le tante forme responsabili, cooperative e solidali d’impresa si preoccupano di superare l’approccio a due tempi che pensa sia innanzitutto importante creare il valore generando danni sociali e ambientali e poi eventualmente redistribuirlo fiscalmente per realizzare, invece, un modello integrato e organico dove il valore è prodotto in modo condiviso, solidale e sostenibile dall’inizio riducendo fonti e cause delle diseguaglianze e con l’obiettivo di restare sui territori nel tempo. È fondamentale approfondire e camminare su questo sentiero non solo per il bene degli ultimi ma anche aumentare probabilità di sopravvivenza e ridurre fonti di rischio dei nostri sistemi democratici.