Tiriamo un sospiro di sollievo nell’ammirare il temuto spread che plana ai livelli di sei mesi fa. E ci gustiamo la discesa dei titoli decennali del nostro debito pubblico dalle cime del 6% alle montagne meno impervie di giugno 2011, con un rendimento al 4,7%. Il "Btp Italia" raccoglie intanto 18 miliardi (!) in quattro giorni, certificando il ritorno dei grandi investitori esteri, dopo la fuga a gambe levate dei mesi scorsi per timore del crac. La "cura Monti", per questo verso, funziona. Eccome. E intanto anche sul Consiglio europeo in corso a Bruxelles non si abbatte più il vento rabbioso dei mercati, gonfiato dai giochi d’azzardo sull’implosione dell’euro. Ma attenzione a non passare dalla depressione irrazionale a un’euforia altrettanto irrazionale.È possibile che questo vertice europeo, pur non cruciale a livello operativo, sancisca comunque una svolta nella psicologia dei mercati. Potremmo lasciarci cioè alle spalle una fase di "economia della paura" governata dai «
bond vigilantes», per usare l’espressione con cui l’economista Ed Yardeni stigmatizzava il potere assoluto di chi maneggia i debiti pubblici e privati ed è in grado di alimentare uno scostamento insostenibile fra i grafici di Borsa e l’economia reale. L’abbiamo sperimentato, quello scostamento, nella sua versione depressa. Rendimenti al 6% e differenziali a 500 punti per i titoli di Stato italiani non erano motivati semplicemente dai numeri. C’era una componente emotiva: la paura, appunto. Le Banche centrali sono intervenute, pesantemente, per evitare il grande errore commesso negli anni Trenta del Novecento, all’epoca della Grande Depressione, quando non reagirono con prontezza. Oggi però – è il presidente della Bce, Mario Draghi, a ricordarlo – la politica monetaria non è sufficiente. Servono altri argini. È indispensabile che la politica conti più dei
bond vigilantes.Perché a un punto di rottura per la depressione irrazionale, la storia insegna, ne corrisponde uno speculare – e altrettanto pericoloso – per l’eccesso opposto. In circolazione di euforia ce n’è parecchia se la capitalizzazione di una singola azienda, si chiami pure Apple, vale quanto il Pil della Svizzera. Proprio oggi, poi, ricorre il venticinquesimo anniversario del più grande capitombolo di Wall Street, il calo maggiore registrato in una sola giornata in termini percentuali nella storia dei mercati azionari, effetto anch’esso di un divario (spread) insostenibile fra aspettative di guadagno della finanza e fondamentali dell’economia. Il 19 ottobre 1987 è passato agli annali con il nome di
Black Monday, il lunedì nero. In quella seduta l’indice Dow Jones crollò del 22,61%, provocando un disastroso effetto a catena nelle Borse di tutto il mondo. Oltre a una sopravvalutazione dei listini la task force presidenziale sui meccanismi di mercato, la Brady Commission, attribuì il crollo alle strategie di credito note come
index arbitrage e
portfolio insurance. La prima, in particolare, indica quel processo di acquisti e vendite incrociate su strumenti derivati che hanno come attività sottostante gli indici di Borsa. Speculazione dura, insomma. Ecco perché la buona politica monetaria non basta a garantire stabilità.Servono regole stringenti. «Sabbia negli ingranaggi dei trader», diceva James Tobin, di modo che non corrano troppo verso Eldorado facendo però schiantare tutti. Sorprendono in tal senso gli studi allarmistici sugli effetti potenzialmente distruttivi di una Tobin Tax «asciuga-mercati»: imposte simili sono attualmente in vigore già in 13 Paesi. E la Gran Bretagna è fra questi, avendo introdotto da una decina d’anni, per finanziarsi, la
Duty Stamp Tax su tutti i titoli acquistati in Borsa. Non risultano fuggi-fuggi d’investitori dalla seconda piazza finanziaria mondiale. La City, al contrario, è diventata sempre più grande e forte.Spetta dunque all’Europa scegliere la strada dell’equilibrio. Ora può imboccarla con più serenità. Ne stanno discutendo a Bruxelles – di unione bancaria, vigilanza comune, divieto di trading proprietario per gli istituti di credito – e a lungo ne ha discusso, a partire dalla standardizzazione dei mercati non regolamentati, il Financial Stability Board a livello globale. Bisogna venirne presto a capo. Prima che a travolgerci non sia più una paura, ma di nuovo un’euforia parimenti irrazionale.