Mentre si celebra, in questi giorni, il centenario della nascita, non è vano chiederci quale sarà l'avvenire, nel XXI secolo, della lezione e della testimonianza di don Milani. Può aiutarci, per una corretta lettura, un altro centenario, imminente, quello di Italo Calvino. Che cosa hanno in comune i due autori? Il desiderio di una utopia efficace perché attiva, rivolta innanzi tutto alla scuola, come fattore di uguaglianza. “Lettera a una professoressa” e l’antologia per la scuola media di Calvino-Salinari, “La lettura”, escono a due anni di distanza (1967 e 1969), con lo stesso anelito: non si può conoscere il mondo se non lo si circoscrive in una parola precisa, se l'oggetto non è descritto con chiarezza, se la comprensione non è di tutti. Si potrebbe obiettare che Calvino aspira, come Fourier, a un'utopia cosmica, mentre don Milani è abbarbicato, per punizione e per elezione, agli ultimi, lassù a Barbiana. Come vide con acutezza Pier Paolo Pasolini, il priore porta in sé quel fervore che univa il kibbutz della tradizione ebraica (propria della sua famiglia) e il “tutto in comune” della prima tradizione apostolica.
Ma non si pensi che Calvino presenti solo visioni cosmiche (dalle “Cosmicomiche” a “Palomar”): c’è costantemente in lui, sin da un apologo risalente agli anni della II guerra mondiale, il bisogno etico del “qui e ora”, anche se tutto può parere inutile: “la palata che non dai ora – dice uno sterratore all’altro, ormai esausto e deluso – mancherà per sempre alla storia del mondo”. Barbiana è stata quella “palata”: invisibile eppure perenne, fedeltà sopra ogni calcolo di riuscita. “Dio mi perdonerà se ho amato più voi che lui”, dirà dei suoi ragazzi il pastore non del gregge ma della pecorella smarrita. Non diversamente Calvino s'interroga se sia meglio, per crescere nell'osservazione e nella conoscenza, prestare attenzione alle notizie, che provengono da ogni regione del mondo, sfornate dal Telegiornale, o se sia più importante affisarsi sulla “pancia del geco”, immobile sulla vetrata, apparentemente inerte, ma già pronto al guizzo. Opterà per il secondo, per l'istante che solo lì “ha luogo”. Il prezioso istante degli ultimi ai quali nessuno presta attenzione, degli “scarti” della società, difettivi, inutili alla produzione, come chioserà don Milani. In un mondo quale quello che ci è promesso – e già abbiamo davanti – così fitto di flussi universali (tanto di dati che di virus, di morti a caterve che di parole d'ordine unificate sulle reti) l'individuo pare impotente e inessenziale e chi vuole impegnarsi è oppresso dalla manifesta inefficacia della sua singolarità.
E tuttavia la scuola di Barbiana come “La giornata di uno scrutatore” ci insegnano che in ogni cittadella della sofferenza e dell’abbandono scocca l’istante in cui nel cuore dolente della città si fa luce e spazio la Città (maiuscolo in Calvino). La qualità del nostro lavoro, insegna don Milani, non si misura sulla efficacia dei risultati, ma sull'aderire, primariamente e sovra tutto, alla dignità dell'uomo. Tale lezione è, oggi, ancora più preziosa: se il tempo e la società si son fatti – come ci vien detto – “granulari”, occorre non vivere questa granularità come perdita di centro, di coordinate, di “visione complessiva” da cui dedurre principi di azione. Si tratta piuttosto di operare con delicata pazienza sui grani, snocciolandoli e liberandoli uno a uno, riconoscendoli infine come “seme”, purché esso non venga lasciato cadere ai margini della via, ma sia “gettato innanzi “ (secondo l’apologo di Johann Peter Hebel), semente d’avvenire. Mi potrebbe essere obiettato che questo parallelo Calvino-don Milani possa apparire una comoda scorciatoia, se non un avvicinamento pericoloso.
È invece la nuda storia: si rileggano le lettere di Calvino a Vittorini e specialmente quella del 12.12.1947, in cui egli rinuncia a partecipare alla “Gran Polemica” su cultura e società. Vorrebbe meditare di più eppoi – suggerisce – non è certo se alla fine egli non debba preferire le ragioni di Felice Balbo, redattore di Einaudi, amico di Calvino, fautore con Rodano di una linea di dialogo dei cattolici con i comunisti ma entro ragioni etiche di servizio e non di presa di potere: “Finirei per essere più vicino a Balbo che a te”. Questi due centenari obbligano a una seria meditazione storica, di cui è necessario mettere in luce qualche caposaldo: il valore fondante, per ogni società, della dignità di ogni individuo; il crogiolo della scuola come esercizio continuo di ascolto, di vigile lucidità, di dialogo, ove nessuno può essere scartato. E, non meno, la ostinata fiducia che accettare la propria prigione (Barbiana o le château d'If) e farla propria e criticarne i limiti interni non meno che esterni è già liberarsi, perché la libertà è tutta interna: nella nostra capacità a assumere i nostri limiti, comprendendo quelli altrui. Un centenario prezioso, tutto da applicare.