Cosa è la morte? Che significa per me che si muore? Che io morirò? Voi che leggete, morirete: ve lo siete mai detto con chiarezza? Vi siete mai soffermati a pensarci e a vedere che effetto vi fa? Ma possibile che è diventato imbarazzante porsi queste domande? Ci fa così tanta paura? Eppure la morte ci viene incontro tutti i giorni, in mille maniere. Strano. Facciamo difficoltà a pensare alla morte e più ancora alla nostra morte; la sua 'musica' fa da sottofondo al nostro vivere, potremo affinare l’udito se ne ascoltassimo le note, ma preferiamo essere sordi. Salvo qualche raro momento in cui aggredisce la nostra quiete e siamo costretti a interrogarci, spesso trovandoci spiazzati e muti, soli dinanzi al suo enigma, senza risposte...
È meglio, allora, essere senza domande? Francesco Guccini, proprio in un’intervista a questo giornale nel 1990, dopo la morte di un suo amico cantautore, diceva che spesso si trovava a chiedersi che senso avesse tutto quello che aveva fatto e concludeva più o meno così: 'Non sono religioso, quindi non ho la risposta; ma so che mi devo fare la domanda'.
Dinanzi alla morte che irrompe, poi, il rischio è che oscilliamo tra il rimanere attoniti, senza speranza, nella più profonda solitudine e nello sconforto totale e qualche momento di forte commozione che lascia il tempo che trova, essendo talvolta una maschera di circostanza usa-e-getta. Chissà, poi, perché ci siamo lasciati convincere che i pensieri e le domande sulla morte sono espressione di depressione?
È diventato talmente un tabù il pensiero della morte e ci lascia talmente turbati, che ognuno inventa le sue strategie per emarginarlo e negarlo: uno psicoanalista anni fa in un suo libro – 'Il rifiuto della morte' – diceva che spesso ci si rifugia in quelli che lui indicava come «simboli di immortalità»: il sesso, il denaro, il potere.
Anche tra i ragazzi il pensiero della morte è più frequente di quanto si possa immaginare. O lo devono emarginare, oppure lo combattono con un senso di sfida e qualche volta ci lasciano la pelle: abbiamo mai provato a pensare alle stragi del venerdì e del sabato sera da questo punto di vista? Tanta è l’apatia, la noia ; tanto è il 'non senso' in cui li abbiamo lasciati che devono inventarsi consciamente o inconsciamente 'attimi fuggenti', carichi di adrenalina: ma poi trovano la morte.
In questi giorni in cui, credenti e non credenti, siamo accomunati dal ricordo a tratti triste, dolce, malinconico, tenero o pensoso dei nostri defunti, vorrei suggerire di fermarci almeno un po’ a pensare alla morte e, perché no, alla nostra morte.
È vero, nel passato anche una certa predicazione ha fatto un po’ di terrorismo psicologico su questo, ma non possiamo dimenticare la lezione del Vangelo: «Stolto, stanotte stessa morirai e quello che hai di chi sarà?» (Gesù). O i santi suggerimenti di 'apparecchiarsi' – prepararsi – alla morte (Alfonso Maria de’Liguori). Ma anche la provocazione di uomini di cultura e di scienza come Vittorino Andreoli: nelle sue interviste a tanti giovani tra le prime domande spesso chiede 'Cosa è per te la morte?'; e ha notato che la incapacità di rispondere a questa domanda spesso aiuta a capire l’incapacità di apprezzare e rispettare la vita degli altri e la propria. Termino con un ricordo personale: qualche anno fa, dopo la lettura di un bel libro del monaco Anselm Grun 'Se avessi un solo giorno da vivere' ho scritto due paginette, fissando, quasi a modo di testamento spirituale, come avrei voluto vivere quel giorno. Ancora me le vado a leggere di tanto in tanto : e mi viene tanta voglia di vivere e di vivere bene, fino all’ultimo respiro, finché 'la nemica' mi diventi 'sorella', a motivo di Gesù, che con la sua morte ha sconfitto la morte e ci ha promesso la vita senza fine. 'Se avessi un solo giorno da vivere...': se vuoi, prendi carta e penna e scrivi anche tu con l’inchiostro del cuore. E poi dormi sereno, perché – come ci ha insegnato Benedetto XVI – dopo la tua morte non cadi nelle braccia del nulla, ma in quelle di un Padre.
Sacerdote e psicologo