Fanno discutere i provvedimenti con cui il Tribunale di Roma ha negato la convalida dei trattenimenti di cittadini stranieri trasferiti nelle strutture costruite in Albania, motivata con l’assenza dei presupposti di applicabilità della procedura accelerata in frontiera, in quanto i Paesi di provenienza, ai sensi di una direttiva europea come recentemente interpretata dalla Corte di giustizia dell’Unione, non sarebbero da considerare sicuri.
Ne deriva una considerazione quasi ovvia: si tratta di una controversia giuridica, non politica. “Buttarla in politica”, gridare alla politicizzazione della magistratura, non giova alla comprensione delle questioni e fa, ancora una volta, male allo stato di salute della nostra democrazia: in uno Stato costituzionale di diritto si deve distinguere tra sin dove può arrivare la discrezionalità della politica e quando comincia il rispetto delle regole costituzionali, alle quali anche la politica è tenuta a sottostare.
Il nucleo della discussione è il rapporto tra norme nazionali e norme europee. Aderendo all’Unione europea, l’Italia ha acconsentito a limitazioni della sovranità finalizzate, per usare il lessico dell’articolo 11 della Carta che ne ha costituito inizialmente la sola base giuridica, alla costruzione di un ordinamento che assicuri pace e giustizia tra le nazioni. Con una revisione costituzionale del 2001, è stato sancito nel primo comma dell’art. 117 Cost. l’obbligo per le leggi dello Stato e delle regioni di conformarsi ai vincoli europei.
Ciò comporta, tra l’altro, che, in caso di contrasto tra una norma europea avente efficacia diretta e una norma nazionale, quest’ultima è destinata soccombere, dovendo i giudici disapplicarla a favore di quella europea. L’efficacia diretta, che è il presupposto per tale disapplicazione, è riconosciuta non solo a tutte le norme contenute in un regolamento dell’Unione europea e a quelle contenute in direttive direttamente applicabili, ma anche alle decisioni della Corte di giustizia che si pronunciano sulla validità o sull’interpretazione del diritto eurounitario. Inoltre, è fatto salvo il rispetto dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inviolabili, che compete alla Corte costituzionale verificare.
Poiché la disapplicazione di cui si è parlato può concernere anche norme di rango legislativo, avere adottato un decreto- legge per stilare la lista dei Paesi cosiddetti sicuri (i provenienti dai quali dunque possano essere soggetti alla procedura accelerata) non muta i termini della questione, poiché i giudici nazionali potranno comunque disapplicarne le norme ove le reputino in contrasto con la direttiva europea, e perché continua a competere loro la verifica circa la circostanza che un Paese, definito in via generale “sicuro”, possa non esserlo con riferimento a determinati gruppi sociali, religiosi o politici: secondo la Corte di giustizia tale situazione osterebbe oggi a qualificarlo come sicuro, mentre soltanto a partire dal 2026 ritornerebbe in vigore la precedente clausola che lo permetteva.
Aggiungo che tale decreto-legge prevede che l’aggiornamento dell’elenco di tali Paesi vada fatto con atto avente forza di legge e dunque presumibilmente un decreto-legge, così accentuando l’eccessivo ricorso a tale fonte. Senza contare che, consistendo esso in una reazione a provvedimenti giurisdizionali di primo grado, se ne enfatizza il carattere di legge-provvedimento, suscettibile di venire censurata dalla Corte costituzionale in quanto viziata da eccesso di potere legislativo.
Perché allora ricorrere a un decreto legge, per giunta di dubbia costituzionalità, quando il Governo ha a disposizione i rimedi consueti, a cominciare dal ricorso in Cassazione? Perché, appunto, “buttarla in politica”? Ora, la materia dell’asilo è oggetto di un vero e proprio “sistema europeo comune di asilo”, che dovrebbe costituire un vanto per l’Unione Europea e per i singoli Stati che la compongono, proprio perché trova le proprie radici nella necessità di protezione della persona umana e nei principi dello Stato di diritto. A una condizione: che si tratti davvero di una politica comune, cioè che nessuno Stato membro sia lasciato a sé stesso, che l’Europa impari a parlare con una sola voce anche su tali materie. Ciò richiede, tuttavia, convinzione nella bontà del percorso europeo, oltre che capacità e volontà di essere autorevoli ai tavoli europei. Che stia proprio nella debolezza di tali premesse la risposta alle domande precedenti?