Caro direttore,
è tanto tempo che non mi faccio vivo con lei e con il suo giornale. La spinta me la dà la lettura di un superbo ricordo di Marco Pannella firmato da Giuliano Ferrara, sul “Foglio” di qualche giorno fa. In un coro di cose stucchevoli e di tanta aria fritta, Ferrara riesce a dire le cose più vere e più ardue: la stima e l’affetto e al tempo stesso la lontananza da molte battaglie di Pannella. E lo fa scartando le ovvietà della lectio facilior, e affrontando con coraggio e audacia l’impervio della lectio difficilior. Che è quella strada, come sanno i filologi, che ci porta, forse, più vicino alla fonte da scoprire.
Prendo spunto da qui, per comunicarle in realtà un mio malessere nel leggere le troppe sciocchezze che si dicono attorno al drammatico problema di questa migrazione che scappa fuori da tutti i canoni interpretativi che vogliono rassicurarci a tutti i costi. L’ho seguita, direttore, in ciò che va scrivendo e anche in alcune sue prese di posizione alla televisione e mi è parso, a volte, di notare in lei, nel suo stile educato e riflessivo, qualche momento di incertezza quando cercava di commentare le parole dirette del Papa sul tema degli “aiuti” ai migranti.
Io credo che dovremmo un po’ tutti avere il coraggio e la forza di alzare lo sguardo verso la lectio difficilior. Non ci possono essere soluzioni facili per questo evento biblico. Se scappano dalle guerre quei poveri disperati, dobbiamo avere il coraggio di guardare le nostre mani che quelle guerre alimentano nei modi più scellerati. Abbiamo saccheggiato, noi europei civili e cristiani, per secoli quelle terre con il colonialismo e continuiamo a cercarvi un nostro vantaggio anche oggi. Avrà la forza questa Europa pavida e infingarda di alzare la voce contro la svendita dell’Africa alle grandi potenze mondiali che si attrezzano per scacciare dall’agricoltura di sussistenza decine di milioni – non di migliaia, di milioni! – di disperati che cercheranno ovviamente una salvezza e finiscono tra le braccia di quanti alla loro tragedia hanno collaborato e collaborano fattivamente?
Io continuo a sperare in un mondo migliore andando, con le mie poche forze, anche nei Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo a parlare di quel pazzo visionario che lei ben conosce, Raimondo Lullo, che nel secolo delle cruenti crociate, delle battaglie senza quartiere tra cristiani e musulmani, ha avuto la forza e l’illuminazione di deporre la spada per scegliere il dialogo, il confronto francescano, l’unica strada che possa garantire al mondo un futuro di pace. La saluto con grande e affettuosa cordialità.
Alessandro Tessari
Ben tornato, caro professor Tessari. Lo so che con attenzione e vera libertà segue il mio e nostro lavoro, e dunque “ci incontriamo” cordialmente ogni giorno. Ma trovo sempre stimolante e arricchente dialogare con lei in modo diretto. E anche stavolta la sua lettera mi induce a qualche condivisa riflessione.
Sono sempre più consapevole, caro amico, che la lettura autentica e più impegnativa – la lectio difficilior – da lei evocata, di fatti e processi è in genere anche quella più semplice e diretta. Senza dietrologie e senza speculazioni. Bastano e avanzano, di speculazioni economiche e intellettuali, quelle che funestano la vita dei piccoli e dei deboli e che continuano a depredare gran parte dell’umanità di vita e verità. «Una strage di vita e di verità» avrebbe tuonato Marco Pannella, suo difficile amico e mio interlocutore, spesso coriaceo e del tutto avversario, ma a volte, e non così poche, serio compagno di cammino.
Vengo al punto: il magistero totalmente evangelico e civilmente forte di papa Francesco sull’aiuto e l’accoglienza necessari nei confronti degli esseri umani che ingiustizie sempre violente e spesso indescrivibili forzano alla migrazione per guerra, persecuzione e fame. Posso rassicurarla, se davvero questo è il suo dubbio: ciò che da molti anni anch’io scrivo e dico a questo proposito è, con tutte le necessarie e sempre nuove domande ma senza esitazioni, in piena e naturale sintonia con la parola di Francesco e con la visione proposta dall’enciclica Populorum progressio di Paolo VI. Un testo realista e profetico, che nel suo nucleo essenziale da cinquant’anni esatti interpella e scuote le coscienze di credenti e non credenti, mette in punto di reputazione i “grandi del mondo” (lenti, lentissimi, e sinora troppo inadeguati nelle risposte: le priorità del summit G7 di Taormina ne sono l’ennesima conferma...) e che ha potentemente contribuito a formare e liberare pure il mio sguardo di uomo e di cristiano sulle società umane e sulla sfida del giusto sviluppo. Siamo d’accordo e lei, professore, lo sa bene: la grande questione non è soltanto un emergenziale dare riparo a chi è costretto a sradicarsi dalla propria terra, è una svolta strutturale: pensare e vivere la nostra Terra come «casa comune», non lasciar più saccheggiare e bruciare le «case dei poveri» e non consegnare il governo delle «città dell’uomo» ai teorici della “guerra dei mondi” e ai signori del muro contro muro. Purtroppo siamo desolatamente consapevoli del fatto che la grande depredazione continua. Poteri irresponsabili, politici ed economici, ne portano la colpa e vogliono impudentemente convincerci che la risposta a tutto questo male è prima di tutto “di polizia”, ma nessuno di noi è totalmente innocente per quanto accade. Non ci si deve stancare di riconoscerlo, da uomini e donne di dialogo. Che non vogliono un mondo senza regole, ma l’esatto contrario: un mondo retto da regole salde e giuste. I lettori già conoscono questa risposta, ma tutti sappiamo che non è mai detta e incarnata abbastanza.
P.S. Mi fa sorridere, caro professore e amico, quel suo aggettivo «superbo» che loda lo scritto di un gran collega. Più di una volta negli ultimi otto anni quello stesso collega lo ha usato e fatto usare contro di me, giochicchiando col mio cognome. Ora, per merito suo e della sua elegante scrittura, glielo posso restituire in pace. Grazie anche per questo.