Il presidente Poroshenko che nomina consigliere speciale del governo l’ex segretario generale della Nato Anders Fogh Rasmussen. La top-gun Nadia Savchenko che rientra in patria dopo due anni di prigionia in Russia e subito punta alla poltrona presidenziale. L’ex presidente dell’Urss Mikhail Gorbaciov che si vede precludere per cinque anni l’ingresso in Ucraina «per l’appoggio dato all’annessione della Crimea da parte della Russia». Se queste tre notizie non avessero perforato la cortina di silenzio che avvolge da mesi i destini dell’Ucraina avremmo continuato a ignorare la situazione di un Paese che a oltre due anni da Maidan – la piazza di Kiev teatro di quella rivoluzione che nel 2014 rovesciò il governo filo-russo di Viktor Janukovich – versa, se possibile, in una condizione ancora peggiore.
La situazione economica, anzitutto. Stretta nella morsa della crisi, l’Ucraina ha visto il Pil crollare del 9,7% nel 2015 (sebbene nel 2016 le stime parlino di una ripresa dell’1,6%), con un’inflazione che ha sfondato la soglia del 40% e un crollo delle importazioni che ha colpito tutti i partner stranieri, compresa l’Italia, che stando ai dati dell’Ice nel 2015 ha visto scendere l’interscambio commerciale con l’Ucraina del 25%. Non va meglio il sistema bancario, forse anche per le rigide prescrizioni del Fondo Monetario Internazionale (principale 'donatore' insieme all’Unione Europea con il suo piano da 40 miliardi di dollari): dei circa 170 istituti presenti nel 2013, 60 hanno chiuso, sono falliti o sono stati messi in liquidazione. Non c’è da stupirsi: l’opacità delle amministrazioni locali, le connivenze fra politica e business, l’inerzia dilagante del sistema giudiziario e soprattutto – e non meravigliamocene, considerato il lungo inverno sotto la cappa del comunismo sovietico – la scarsa propensione al libero mercato hanno allontanato gli investitori stranieri creando una diffuso clima di diffidenza nei confronti del Paese.
«La grande piaga dell’Ucraina – spiega Artem Sytnyk, il giovane procuratore che guida il Nabu, la nuova Autorità nazionale anticorruzione che si avvarrà di uno staff di 700 fra analisti, investigatori e forze speciali – è la corruzione». Debellarla vorrebbe dire mettere sotto accusa l’intero sistema politico, a cominciare dal presidente Poroshenko (il cui nome – ma davvero se ne dubitava? – appare fra le carte dei Panama Papers ed è protetto da immunità): lo scetticismo, inutile negarlo, è d’obbligo. L’economia ammalata, però, non è che un riflesso della situazione politica e sociale. Dopo l’annessione della Crimea alla Federazione Russa a seguito del referendum del 16 marzo 2014, due province orientali del Donbass, gli oblast di Donetsk e di Lugansk si sono autoproclamate repubbliche popolari indipendenti con il supporto neanche troppo dissimulato della Russia. Ne è seguita una guerra civile a bassa (ma a volte media) intensità, che secondo un rapporto dell’Onu pubblicato nel marzo scorso è costata finora 9.167 morti, oltre 20 mila feriti e 1,6 milioni di sfollati, la metà almeno dei quali sono profughi interni, senza contare i 580.000 bambini che vivono nelle aree vicino alle linee del fronte, per i quali – è un dossier dell’Unicef a rammentarcelo – «la vita è cambiata profondamente, causando problemi sociali e psicologici».
Ma le cifre potrebbero essere ancora più drammatiche: secondo monsignor Borys Gudziak, responsabile dei rapporti con l’estero della Chiesa ucraina greco-cattolica, «diecimila persone sono state uccise e cinque milioni sono toccate direttamente dalla guerra e più di due milioni sono i rifugiati». A suo modo Mosca conferma: secondo l’Ufficio federale dell’immigrazione russa negli ultimi due anni avrebbero varcato il confine oltre 2 milioni e mezzo di cittadini ucraini. Di questi, circa 1,2 milioni vivevano nel Donbass. Fra i tanti capitoli dimenticati in questa collettiva amnesia che avvolge l’Ucraina ci sono i Protocolli di Minsk, stipulati nel febbraio dello scorso anno. Si parlava di un cessate il fuoco completo, del ritiro di armi pesanti dalla linea di contatto in Ucraina orientale, di riforme costituzionali, di uno status speciale per le repubbliche autoproclamate di Donetsk e Lugansk. Accordi largamente inapplicati, e per questo permangono le sanzioni europee alla Russia. Non si sta meglio a Kiev. Mercato nero ed economia sommersa predominano. L’austerity di tipo greco imposta dal Fmi (tagli alla spesa pubblica, riduzione degli stipendi dei dipendenti pubblici e aumento generalizzato delle bollette) rischia di far esplodere una nuova Maidan. Il sogno riformista, la miccia generosa – se pure accortamente eterodiretta – che due anni fa costò almeno 100 morti e accese il Paese di nuove speranze sembra ancora molto lontano.